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INTRODUZIONE
 

Prima di Machiavelli, i trattati sui principati e sui principi erano soprattutto delle esortazioni alla virtù. Si chiamavano Specula principum (“Specchi dei prìncipi”, nei quali i principi potessero, metaforicamente, riflettersi per conoscersi e imparare come comportarsi conformemente al loro ruolo) e illustravano le qualità che un buon principe doveva avere: fede, rettitudine, rispetto della parola data, castità, amore per la pace e, soprattutto, generosità. Ecco che cosa scrive Riccardo Bruscagli: «Naturalmente col Quattrocento si era notevolmente attenuata l’ipoteca religiosa dei secoli precedenti: le virtù del principe non erano più intese in diretto rapporto con la missione divina della sua autorità, e opere come il De regno di Francesco Patrizi, il De officiis principiis liber di Poggio Bracciolini il giovane, il De Principe del Pontano, sottolineavano piuttosto, in armonia coi tempi, qualità come la magnificentia [la “sontuosità”] e la maiestas [la “grandezza”], inerenti allo splendore formale delle corti, necessario prestigio di un principe umanistico. Tuttavia anche la tradizione quattrocentesca non si presentava meno astrattamente idealizzante di quella medievale: queste opere esprimevano concordemente il sogno di un monarca giusto e pacifico, spesso anche filosofo».
Machiavelli volta le spalle a questo idealismo, rinnega tutti questi insegnamenti. Ritiene infatti che, mentre in astratto le azioni umane possono essere buone o cattive, l’unico giudizio che conti in politica è se tali azioni sono utili o dannose. Ecco dunque che, in nome di questo realismo politico, molte di quelle che erano tradizionalmente considerate virtù diventano vizi, e viceversa: e al principe converrà, per mantenere lo stato, non essere pietoso ma crudele, non liberale ma parsimonioso, non sincero ma doppio. Per la prima volta nella storia del pensiero occidentale le leggi della politica vengono separate con nettezza, e anzi quasi opposte alle leggi della morale e della religione.

 
TESTO
 

Resta ora a vedere quali debbino essere e’ modi e governi1 di uno principe o co’ sudditi o con li amici. E perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso, partendomi massime nel disputare questa materia, da li ordini delli altri2. Ma sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa3. E molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere4. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere5, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si doverrebbe fare, impara più presto la ruina che la perservazione sua6: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini7 in fra tanti che non sono buoni. Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità8.
Lasciando adunque addreto9 le cose circa uno principe immaginate, e discorrendo10 quelle che sono vere, dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e massime11 e’ principi per essere posti più alti, sono notati12 di alcune di queste qualità che arrecano loro o biasimo o laude. E questo è, che alcuno è tenuto liberale13, alcuno misero14, – usando uno termine toscano, perché avaro in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera di avere15: misero chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo16; – alcuno è tenuto donatore, alcuno rapace; alcuno crudele, alcuno pietoso; l’uno fedifrago17, l’altro fedele; l’uno effeminato e pusillanime18, l’altro feroce e animoso19; l’uno umano, l’altro superbo; l’uno lascivo20, l’altro casto; l’uno intero21, l’altro astuto; l’uno duro, l’altro facile; l’uno grave, l’altro leggieri22; l’uno religioso, l’altro incredulo, e simili. E io so che ciascuno confesserà23 che sarebbe laudabilissima cosa uno principe trovarsi, di tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone. Ma perché le non si possono avere tutte né interamente osservare, per le condizioni umane che non lo consentono, è necessario essere tanto prudente ch’e’ sappi fuggire la infamia di quegli vizi che gli torrebbono lo stato; e da quegli che non gliene tolgono guardarsi s’e’ gli è possibile24: ma non possendo, vi si può con meno respetto25 lasciare andare. Ed etiam26 non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizi, sanza quali e’ possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considera bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina sua27: e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne nasce la sicurtà e il bene essere suo.

  1. governi: atteggiamenti, comportamenti.
  2. dubito ... altri: temo, scrivendone anch’io, di essere considerato presuntuoso, soprattutto perché mi allontano, trattando questi argomenti, dai metodi degli altri.
  3. andare ... essa: badare alle cose come stanno e non alle cose come si immaginano.
  4. in vero essere: esistere nella realtà.
  5. gli è ... vivere: la vita com’è è tanto distante (discosto) dalla vita come dovrebbe essere.
  6. impara ... sua: impara come fallire piuttosto che come conservarsi al potere.
  7. conviene che ruini: è inevitabile che fallisca, che cada.
  8. e usarlo ... necessità: e servirsi della cattiveria, della malizia, a seconda che la situazione lo richieda.
  9. Lasciando ... addreto: lasciando indietro, tralasciando.
  10. discorrendo: esaminando.
  11. massime: soprattutto.
  12. sono notati: sono distinti.
  13. alcuno ... liberale: qualcuno è considerato (tenuto) generoso.
  14. misero: avaro.
  15. ancora ... avere: anche (ancora) colui che vuole procurarsi le cose con l’inganno e con il furto (rapina).
  16. si astiene ... suo: è troppo restio a spendere i suoi soldi.
  17. fedifrago: sleale (etimologicamente “che rompe, frange la fede”).
  18. pusillanime: vile (etimologicamente “di animo piccolo”, dal latino pusillum, “piccolo”).
  19. animoso: coraggioso.
  20. lascivo: lussurioso, incline al sesso.
  21. intero: schietto, leale.
  22. leggieri: leggero, superficiale.
  23. confesserà: riconoscerà, ammetterà.
  24. è necessario ... possibile: al principe conviene essere tanto saggio da saper evitare il biasimo che gli verrebbe dai vizi che potrebbero compromettere il suo potere («gli torrebbono lo stato»); e gli conviene anche sapersi difendere da quelli che non lo comprometterebbero.
  25. con meno respetto: con minore scrupolo.
  26. Ed etiam: e inoltre.
  27. seguendola ... sua: se si attenesse alla virtù, sarebbe la sua disgrazia.

 
ANALISI DEL TESTO
 

LA FONDAZIONE DELLA MODERNA SCIENZA POLITICA Machiavelli è consapevole della novità dirompente che il suo «piccolo volume» introduce nella tradizione della trattatistica politica. Arrivato al punto in cui deve affrontare la questione delle qualità del principe, egli formula una sorta di discorso fondativo, esprime idee che stanno alla base della moderna scienza politica. Nel primo paragrafo Machiavelli sostiene la propria tesi anzitutto confutando in modo risoluto, quasi sdegnoso, il punto di vista dei suoi predecessori, che si sono limitati a concepire un ritratto idealizzato del principe, costruito sulla base di immaginazioni, cioè di mere congetture che li hanno condotti a parlare di «repubbliche e principati che non si sono mai visti», inesistenti nella realtà.

VIZI E VIRTÙ Nel secondo paragrafo Machiavelli precisa il suo pensiero: tutti gli uomini hanno delle caratteristiche peculiari, buone o cattive, e s’intende che «sarebbe laudabilissima cosa» se un principe possedesse soltanto buone qualità. Ma ciò, da un lato, non è sempre possibile («le non si possono avere»); dall’altro, non è neppure sempre desiderabile, perché le circostanze impongono talvolta di non essere buoni («non si possono […] osservare, per le condizioni umane che non lo consentono»). Conseguenza di ciò è il fatto che i termini di vizio e di virtù vengono ridefiniti in senso pratico piuttosto che astrattamente morale.

STESSA PAROLA, NUOVO SIGNIFICATO A proposito di virtù, quando Machiavelli afferma che il principe deve essere prudente è certamente consapevole che nella teologia cristiana la prudenza è una delle quattro virtù cardinali, ma il significato che egli intende conferire a questo termine è nuovo, del tutto laico. Compiendo questa azione Machiavelli si colloca all’interno di una generale tendenza della letteratura umanistico-rinascimentale a farsi promotrice di una laicizzazione della cultura.

*Prudenza In latino la parola prudentia è composta dal prefisso pro (“davanti, dinanzi”) + vidére (“vedere”), e significa “previdenza, preveggenza, lungimiranza”. Essa corrisponde all’antico greco phronesis, che è “l’esercizio della mente volto alla comprensione attenta della situazione concreta”. Si tratta pertanto, per gli antichi, di una saggezza che deriva non da considerazioni astratte, teoriche, puramente speculative, ma dalla analisi razionale della realtà per progettare il futuro prevedendo le conseguenze di azioni presenti. Per i filosofi antichi, inoltre, la prudenza è una delle quattro virtù cardinali (insieme a forza, giustizia e temperanza) che, nel passaggio alla cultura cristiana, diventano i principi morali che costituiscono i fondamenti di una vita dedicata al bene: la prudenza cristiana è la capacità di discernere il bene dal male alla luce della fede in Dio. Per Machiavelli essa è una delle virtù fondamentali del principe, a cui consente di orientare efficacemente la propria azione politica per il mantenimento dello Stato.

COME ARGOMENTA MACHIAVELLI In questo brano è evidente un tratto caratteristico dello stile di Machiavelli: una rigorosa organizzazione logica dei contenuti. Machiavelli riesce, attraverso particolari costruzioni sintattiche, a conferire al discorso un carattere di verità incontrovertibile. Anzitutto, in alcuni passaggi le proposizioni che compongono i periodi sembrano i termini di un’addizione, alla fine della quale il risultato viene introdotto – invece che dal segno di uguale – da congiunzioni conclusive come onde («Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere…»). Ma Machiavelli attribuisce al proprio discorso il carattere della necessità e della perfetta coerenza anche attraverso l’uso di proposizioni causali.

 
 
 
INTRODUZIONE
 

Machiavelli scrive il Principe in anni di enormi rivolgimenti politici. Dal 1494, anno della discesa di Carlo VIII in Italia, il Paese non aveva più avuto pace. Di qui, da questa «variazione grande delle cose», poteva nascere l’idea che la sorte, la fortuna, sia la sola arbitra dei destini umani, e che abbandonarsi alla corrente sia, dopotutto, la scelta più saggia. Il capitolo XXV è scritto precisamente contro questa posizione rinunciataria. Non che Machiavelli non comprenda un simile fatalismo: ha troppa esperienza, ha visto troppi fallimenti per credere che una provvidenza bonaria sovrintenda alle vicende umane. Ma sa anche che la volontà umana non è ininfluente e che gli uomini sono, almeno in certa misura, padroni della loro sorte. Come agirà, dunque, un principe, nelle molte situazioni d’incertezza che si troverà a dover affrontare? Scegliendo, tra la cautela e l’impeto, non la cautela («il beneficio del tempo», come si usava dire nella Cancelleria fiorentina) bensì l’impeto, la forza, quella stessa che Machiavelli elogiava in condottieri moderni come il duca Valentino o in principi antichi come Agatocle, il tiranno di Siracusa.

 
TESTO
 

E’ non mi è incognito1 come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate, dalla fortuna e da Dio2, che li uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose3, ma lasciarsi governare alla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi per le variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura4. A che pensando io qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro5. Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento6, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei7 ne lasci governare l’altra metà, o presso8, a noi. E assimiglio quella9 a uno di questi fiumi rovinosi che, quando si adirano10, allagano e’ piani, rovinano li arbori e li edifizi, lievano da questa parte terreno, pongono da quella altra11: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro sanza potervi in alcuna parte ostare12. E, benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi queti, non vi potessino fare provedimento e con ripari e con argini: in modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per uno canale13 o l’impeto loro non sarebbe né sì dannoso né sì licenzioso14. Similmente interviene della fortuna15, la quale dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle16: e quivi volta e’ sua impeti dove la sa che non sono fatti li argini né e’ ripari a tenerla17. E se voi considerrete la Italia, che è la sedia di queste variazioni18 e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo: ché s’ella fussi riparata da conveniente virtù, come è la Magna19, la Spagna e la Francia, o questa piena20 non arebbe fatte le variazioni grande che la ha, o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio basti aver detto quanto allo opporsi alla fortuna, in universali21. Ma restringendomi più a’ particulari22, dico come si vede oggi questo principe felicitare e domani ruinare23, sanza avergli veduto mutare natura o qualità alcuna; il che credo che nasca, prima, da le cagioni che si sono lungamente per lo addreto discorse: cioè che quel principe, che si appoggia tutto in su la fortuna, rovina come quella varia24. Credo ancora che sia felice quello che riscontra il modo del procedere suo con le qualità de’ tempi25: e similmente sia infelice quello che con il procedere suo si discordano e’ tempi. Perché si vede gli uomini, nelle cose che gli conducono al fine quale ciascuno ha innanzi, cioè gloria e ricchezze, procedervi variamente: l’uno con rispetto, l’altro con impeto; l’uno per violenzia, l’altro con arte; l’uno con pazienzia, l’altro col suo contrario; e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire. E vedesi ancora dua respettivi26, l’uno pervenire al suo disegno, l’altro no; e similmente dua equalmente felicitare con diversi studi, sendo l’uno rispettivo e l’altro impetuoso27: il che non nasce da altro, se non da la qualità de’ tempi che si conformano28 o no col procedere loro. Di qui nasce quello ho detto, che dua, diversamente operando, sortiscono el medesimo effetto: e dua equalmente operando, l’uno si conduce al suo fine e l’altro no. Da questo ancora depende la variazione del bene; perché, se uno, che si governa con rispetti29 e pazienza, e’ tempi e le cose girano in modo che il governo suo sia buono, e’ viene felicitando30; ma se e’ tempi e le cose si mutano, rovina, perché e’ non muta modo di procedere31. Né si truova uomo sì prudente che si sappia accommodare a questo: sì perché non si può deviare da quello a che la natura lo inclina, sì etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere che sia bene partirsi da quella. E però l’uomo respettivo, quando e’ gli è tempo di venire allo impeto, non lo sa fare; donde e’ rovina: che se si mutassi natura con e’ tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna32.
[...]
Concludo adunque che, variando la fortuna e’ tempi e stando li uomini ne’ loro modi ostinati33, sono felici mentre concordano insieme e, come e’ discordano34 infelici. Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo35: perché la fortuna è donna ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla36. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quegli che freddamente procedono: e però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano.

  1. E’ ... incognito: litote per dire “so bene, mi è ben noto”.
  2. in modo ... da Dio: costruisci: governate dalla fortuna e da Dio in modo tale che.
  3. potrebbono ... cose: potrebbero pensare che non bisogna troppo affaticarsi nel tentativo di governare le cose.
  4. le variazione ... coniettura: il cambiamento continuo della situazione, cambiamento che c’è stato e che è ancora in atto, e che supera l’immaginazione di chiunque.
  5. mi sono ... loro: ho quasi finito per condividere la loro opinione.
  6. Nondimanco ... spento: e tuttavia, perché il libero arbitrio umano non sia cancellato.
  7. etiam lei: anche (in latino etiam) lei.
  8. o presso: o suppergiù.
  9. assomiglio quella: paragono la fortuna.
  10. si adirano: alla lettera “si arrabbiano”, e cioè “si gonfiano”.
  11. lievano ... altra: tolgono terra da una parte e la portano altrove.
  12. ostare: contrastare, fare schermo.
  13. eglino ... canale: [i fiumi] verrebbero incanalati.
  14. licenzioso: capriccioso, sfrenato.
  15. Similmente ... fortuna: lo stesso accade con la fortuna.
  16. dove ... resisterle: dove non c’è alcuna virtù preparata a resisterle.
  17. quivi ... tenerla: continua la similitudine tra la fortuna e il fiume in piena: volge (volta) lì (quivi) i suoi impeti, la sua potenza, dove sa che non ci sono argini e protezioni che ne trattengano il corso.
  18. la sedia ... variazioni: il luogo in cui questi cambiamenti si sono prodotti. Perché in Italia le potenze europee si erano date battaglia ormai da due decenni, in appoggio a questo o quel principe italiano.
  19. la Magna: la Germania.
  20. questa piena: di nuovo l’immagine del fiume in piena che travolge tutto se non viene arginato.
  21. in universali: in generale.
  22. restringendomi ... particolari: venendo alle questioni più particolari, ai dettagli.
  23. si vede ... ruinare: si vede che oggi un certo principe prospera e domani cade, perde tutto.
  24. rovina ... varia: perde tutto non appena la fortuna gira.
  25. Credo ... tempi: credo anche che sia felice e fortunato colui che accorda (riscontra) il suo operare con le esigenze dei tempi in cui vive; e cioè che si comporta con realismo perché ha esperienza del mondo.
  26. dua respettivi: due persone egualmente caute, prudenti.
  27. dua ... impetuoso: due persone avere lo stesso successo (felicitare) malgrado abbiano inclinazioni, modi d’agire opposti.
  28. si conformano: si accordano.
  29. con rispetti: con cautele.
  30. e’ viene felicitando: egli avrà successo.
  31. rovina ... procedere: cade, fallisce, perché egli non ha cambiato in tempo il suo atteggiamento, non ha saputo reagire alle diverse condizioni.
  32. che ... fortuna: perché se [l’uomo cauto] mutasse il suo atteggiamento, la sua indole a seconda delle circostanze («con e’ tempi e con le cose»), la sua fortuna non muterebbe (e cioè conserverebbe il suo potere).
  33. stando ... ostinati: se gli uomini non mutano mai atteggiamento.
  34. come e’ discordano: non appena cessano di andare d’accordo.
  35. meglio ... respettivo: meglio essere violento che cauto.
  36. la fortuna ... urtarla: metafora celebre, e certo poco gentile con le donne: “la fortuna è come una donna, e chi vuole dominarla (tenere sotto) deve trattarla con violenza, percuoterla”, e allora gli obbedirà.

 
ANALISI DEL TESTO
 

QUANTO CONTA LA FORTUNA E QUANTO LA VIRTÙ Come fa spesso nel Principe, Machiavelli comincia la sua argomentazione presentando l’opinione comune, quella che sembra suggerita dal buon senso: molti pensano che la vita umana (le «cose del mondo») sia governata dalla fortuna e da Dio, e che dunque sia saggio abbandonarsi a queste potenze superiori, senza «insudare molto». Questa idea rinunciataria è così radicata negli uomini che Machiavelli stesso dice di averla, talvolta, condivisa. Ma un simile fatalismo non può piacere a un uomo d’azione come Machiavelli, che infatti precisa subito: è vero, non si può negare che nei destini umani la fortuna (o, cristianamente, il volere di Dio) abbia una grande influenza. Ma questa influenza non dev’essere sopravvalutata (essa, dice Machiavelli, si può dire che sia «arbitra della metà delle azioni nostre»), perché gli uomini possono e potranno sempre arginarla e correggerla, proprio come si può arginare e correggere il corso di un torrente che, lasciato libero di scorrere, devasterebbe tutto ciò che trova sul suo cammino. Si tratta dunque di provvedere in anticipo, di premunirsi contro i casi della fortuna, che colpiscono indifferentemente tutti gli uomini, ma ai quali taluni reagiscono meglio di altri. E a questi taluni Machiavelli dà un nome, quello in cui lascia il piano delle considerazioni generali e scende nel concreto: se la virtù degli uomini avesse riparato (come un argine) l’Italia tanto quanto ha riparato nazioni come la Germania, la Spagna e la Francia, il fiume impetuoso della fortuna non avrebbe causato tali e tanti danni. Vale a dire, fuor di metafora: una nazione unita (com’erano appunto le tre menzionate da Machiavelli) avrebbe reagito compattamente contro l’invasione degli stranieri, e forse avrebbe prevalso. Si osservi come già in questi primi paragrafi s’intreccino piani di discorso diversi: una considerazione astratta, sul rapporto tra fortuna e libero arbitrio; una lunga metafora “da letterato” più che da studioso di politica (il fiume in piena della fortuna, gli argini preparati dalla virtù degli uomini); e un riferimento concreto alla situazione dell’Italia del tempo, invasa dalle potenze straniere.

ADATTARSI ALLE «QUALITÀ DE’ TEMPI» Nei paragrafi successivi Machiavelli perfeziona il suo ragionamento introducendo, accanto a quelli della fortuna e della virtù, un terzo concetto che potremmo chiamare “senso della situazione” o “sensibilità politica”, cioè la capacità di modificare il proprio atteggiamento a seconda delle concrete circostanze alle quali il principe deve fare fronte («le qualità de’ tempi»). È un punto che Machiavelli svilupperà anche nei Discorsi (III, 8):

Gli uomini nel procedere loro, e tanto più nelle azioni grandi, debbono considerare i tempi, e accomodarsi a quegli. E coloro che, per cattiva elezione o per naturale inclinazione, si discordono dai tempi, vivono, il più delle volte, infelici, ed hanno cattivo esito le azioni loro; al contrario l’hanno quegli che si concordano col tempo.

SAPER PASSARE ALL’AZIONE Una virtù che Machiavelli apprezza in modo particolare è la lungimiranza, cioè il saper guardare al di là dell’hic et nunc (“qui e ora”). Nel capitolo XVIII aveva biasimato gli uomini che obbediscono soltanto «alle necessità presenti». Qui biasima quei principi respettivi, cioè pazienti, riguardosi, timorosi, che non sanno capire quando è il momento di abbandonare la pazienza e i riguardi e di «venire all’impeto», cioè di passare all’azione e disporsi all’uso della violenza. Perché, conclude Machiavelli, sebbene un principe debba essere in grado di comportarsi sia con astuzia sia con violenza (la volpe e il leone di cui ha discorso nel capitolo XVIII), la violenza è spesso la strategia migliore. «Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo»: «principio», come commenta lo studioso Luigi Russo, «che aderisce a tutta la logica del pensiero machiavellico, che, per essere amico della virtù attiva, deve necessariamente preferire l’impeto alla pazienza».

«LA FORTUNA È DONNA» Nel finale, come fa spesso, lo scrittore Machiavelli passa di nuovo dal piano dei principi politici a quello delle metafore, e conclude il capitolo con un’immagine celeberrima, e geniale nella sua efficacia, anche se la sua crudezza può urtare la sensibilità di un lettore moderno (e più ancora di una lettrice): la fortuna è donna, e le donne vanno dominate con la forza e le percosse. Perciò sono i passionali a conquistarle, e non i freddi; e i giovani, piuttosto che i vecchi. Un principe giovane e irruento è, dunque, il principe ideale (e a questo modello corrispondeva per esempio, nell’opinione di Machiavelli, il duca Valentino, morto a trentadue anni, e poco più che ventenne quando iniziò la sua conquista dell’Italia centrale).

 
 
 
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INTRODUZIONE
 

Roma antica è la norma alla quale i cittadini di Firenze dovrebbero guardare come al perfetto modello di comunità: e tuttavia – ripete Machiavelli – non lo fanno. I Discorsi vogliono essere allora uno sprone non soltanto ad ammirare, ma anche ad imitare gli antichi.

 
TESTO
 

Nello ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e’ regni, nello ordinare la milizia e amministrare la guerra, nel iudicare e’ sudditi, nello accrescere l’imperio, non si truova principe né republica né capitano che agli esempli delli antiqui ricorra. Il che credo che nasca non tanto dalla debolezza nella quale la presente religione1 ha condotto el mondo, o da quel male che ha fatto a molte provincie e città cristiane uno ambizioso ozio2, quanto da’ non avere vera cognizione delle storie, per non trarne, leggendole, quel senso, né gustare di loro quel sapore che le hanno in sé. Donde nasce che infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono3, sanza pensare altrimenti di imitarle, giudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li elementi, l’uomini fussino variati di moti, d’ordine e di potenza, da quelli che gli erono antiquamente.

Volendo pertanto trarre4 l’uomini di questo errore, ho giudicato necessario scrivere, sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità de’ tempi non ci sono stati intercetti5, quello che io, secondo le cognizione delle antique e moderne cose, iudicherò essere necessario per maggiore intelligenzia d’esso; acciò che coloro che leggeranno queste mia declarazioni possino più facilmente trarne quella utilità per la quale si debbe cercare la cognizione delle storie.

  1. la presente religione: cioè la religione cristiana.
  2. uno ... ozio: un’inerzia (ozio) però piena di pretese, di ambizioni.
  3. Donde ... contengono: da qui (Donde) nasce il fatto che moltissimi che leggono queste antiche storie amano ascoltare la varietà dei casi, degli eventi che si raccontano in esse.
  4. trarre: liberare.
  5. che ... intercetti: che non ci sono stati sottratti dalla malignità dei tempi; questo perché dell’opera di Tito Livio, che era composta da 142 libri, ce ne sono pervenuti soltanto 35.

 
ANALISI DEL TESTO
 

UN DISCORSO PROGRAMMATICO Perché i principi moderni non prendono spunto dall’esempio degli antichi? Non tanto, sostiene Machiavelli, perché la religione cristiana ha indebolito gli uomini, ma perché chi legge le storie degli antichi lo fa per il puro piacere che quella lettura gli dà, e non pensa di trarre da quelle storie un insegnamento per la vita presente. Proprio questo conta di fare Machiavelli: commentare Livio in modo che ciò che lo storico latino ha detto possa risultare utile per comprendere sia le «antique» sia le «moderne cose». Col che è affermata con chiarezza la doppia natura dei Discorsi: opera storica ma anche opera di commento e approfondimento della cronaca contemporanea.

 
 
 
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