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INTRODUZIONE
 

Una delle caratteristiche della poesia di Dante è la sua tendenza a descrivere la donna amata non tanto attraverso un suo ritratto fisico o morale quanto attraverso gli effetti che essa esercita sia sull’amante (Dante stesso), sia sulle persone con le quali essa entra in contatto. Beatrice è una creatura celeste, e come tale – dice Dante – era considerata dai suoi concittadini. Il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare è probabilmente la poesia nella quale questa rappresentazione di Beatrice come “miracolo” tocca un estremo di idealizzazione e di raffinatezza. Ma questo sonetto non è solo un testo cruciale nell’itinerario poetico di Dante, il frutto più prezioso dello “stile della lode”, è anche uno dei testi più rappresentativi di quello che gli studiosi hanno chiamato “Stilnovo”, sia che si guardi al suo contenuto (l’effetto non solo nobilitante ma quasi miracoloso che la donna amata esercita sugli astanti), sia che si guardi alla sua forma (una lingua comprensibile, piana, di splendida naturalezza).

 
TESTO
 

Questa gentilissima donna1, di cui ragionato è2 nelle precedenti parole, venne in tanta grazia delle genti, che quando passava per via, le persone correvano per vedere lei, onde mirabile letizia me ne giugnea nel cuore. E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestà giugnea nel cuore di quello3, che non ardia di levare gli occhi, né di rispondere al suo saluto. E di questo molti, sì come esperti, mi potrebbono testimoniare a chi non lo credesse. Ella coronata e vestita d’umiltà4 s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia. Diceano molti, poi che passata era: «Questa non è femina, anzi è de’ bellissimi angeli del cielo». E altri diceano: «Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Signore, che sì mirabilemente sa operare!». Io dico he ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri5, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave tanto, che ridire non lo sapeano6; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio7 nol convenisse sospirare. Queste e più mirabili cose da lei procedeano virtuosamente8. Onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stilo della sua loda, propuosi di dicere parole nelle quali io desse ad intendere delle sue mirabili ed eccellenti operazioni9, acciò che non pur coloro che la poteano sensibilemente vedere, ma gli altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare intendere. Allora dissi questo sonetto Tanto gentile.

Tanto gentile10 e tanto onesta11 pare12
la donna mia13 quand’ella altrui14 saluta15,
ch’ogne lingua deven tremando muta
e gli occhi no l’ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta16;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per gli occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova;

e par che de la sua labbia17 si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo all’anima: Sospira.


Metro: sonetto con fronte a rime incrociate (ABBA ABBA) e sirma con schema a rime invertite (CDE EDC).

  1. Questa ... donna: Beatrice.
  2. di cui ... è: di cui si è parlato.
  3. E quando ... quello: e a chi le stava vicino entrava nel cuore tanta virtù (onestà). Beatrice è insomma, a tutti gli effetti, un’apparizione miracolosa, divina. E la sua virtù si comunica agli altri per semplice vicinanza: appare e opera il bene istantaneamente.
  4. coronata ... d’umiltà: metafora per dire che Beatrice resta, nonostante le lodi degli astanti, umile.
  5. sì ... piaceri: così piena di tutte le bellezze.
  6. quelli ... sapeano: chi la guardava provava un piacere talmente grande da non poter essere descritto né comunicato, una gioia ineffabile (cioè indicibile).
  7. nel principio: subito.
  8. Queste ... virtuosamente: queste e altre cose provenivano dalla sua virtù.
  9. eccellenti operazioni: effetti meravigliosi.
  10. gentile: nobile.

    Tanto nobile e tanto virtuosa appare alla vista (pare) la mia donna, quando saluta qualcuno, che tutti quanti, tremando, ammutoliscono, e abbassano gli occhi per paura di guardarla in volto.
  11. onesta: virtuosa.
  12. pare: non vuol dire “sembra”, ma “risulta, è”.
  13. donna mia: è da intendersi nel senso latino di mea domina, “mia signora” (donna deriva appunto da domina).
  14. altrui: qualcuno.
  15. saluta: nel saluto bisogna sentire l’eco della parola, anch’essa latina, salus, “salute”, ma anche “salvezza”; l’effetto generato dal saluto di Beatrice è dovuto al fatto che quel gesto si carica di un significato simbolico e (come Dante dirà subito dopo) salvifico.
  16. Ella ... vestuta: dopo aver detto quali sono gli effetti suscitati dall’apparizione di Beatrice, il poeta si concentra su di lei; si va: il pronome personale si ha funzione mediale ed esprime il particolare coinvolgimento del soggetto nell’azione.

    Ella cammina, ascoltando le lodi di chi la vede, in atteggiamento umile e benevolo e sembra che sia qualcosa di divino, una cosa scesa dal cielo sulla terra per dare agli uomini la prova del miracolo.
  17. ​​​​​​labbia: dal latino labia, “labbra”, ma, per metonimia, il viso.

    A chi la guarda si mostra così bella che attraverso gli occhi entra nel cuore una dolcezza che è incomprensibile a chi non ne fa diretta esperienza;ed è come se dal suo volto uscisse uno spirito soave carico d’amore che sembra dire all’anima: «Sospira».

 
ANALISI DEL TESTO
 

UNA RAFFINATA ESSENZIALITÀ Con parole molto semplici, con una sintassi vicinissima a quella che adopereremmo oggi, Dante descrive le conseguenze che un gesto di saluto da parte di Beatrice ha su chi la incontra. Le persone ammutoliscono, gli occhi si abbassano, una dolcezza indescrivibile penetra il cuore. La bellezza di questa poesia sta nella sua essenzialità. La rappresentazione riesce infatti a essere molto familiare, quasi ordinaria (che cosa c’è di più normale, infatti, di una bella ragazza che passa per la strada?) e, insieme, sottilmente straniante, perché i sentimenti che Beatrice suscita in chi la contempla, uomini e donne, non sono semplicemente quelli suscitati dalla bellezza: nella bellezza di Beatrice c’è qualcosa di più, qualcosa che tocca lo spirito e non soltanto i sensi. Dante non ci dice “com’è fatta Beatrice”. Di fatto, non ci dice niente di lei: noi la vediamo attraverso gli occhi di chi la guarda passare e, proprio come questi testimoni, restiamo in dubbio circa la sua vera natura: umana o divina?

NEL CAMPO SEMANTICO DELLA VISIONE Il verbo che ricorre più spesso (ben tre volte) è pare, con il significato ora di “apparire” ora di “sembrare”: «Tanto gentile e tanto onesta pare», «par che sia una cosa venuta», «e par che de la sua labbia»; e allo stesso campo semantico della vista riportano anche il verbo mostrarsi, che fa da ponte ai vv. («miracol mostrare. / Mostrasi sì piacente») e gli altri disseminati nel testo: guardare, mirare. Beatrice è uno spettacolo, una festa per gli occhi. Ma il verso «gli occhi no l’ardiscon di guardare», conferisce alla donna un attributo quasi divino: «Ma tu non potrai mai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» si legge infatti nel libro biblico dell’Esodo 33,20, e quello che non può essere visto è il volto di Dio. Nell’immaginazione di Dante, Beatrice è una visione, un’apparizione che allude a una realtà sovrumana, celeste: l’idea della donna-angelo, o della donna-beata, che avrà tanta fortuna nella letteratura successiva, ha le sue radici in componimenti come questo.

LO STILE Alla semplicità delle immagini fa riscontro un’anche maggiore semplicità dello stile. La sintassi si accorda perfettamente alle partizioni interne del sonetto. Il primo periodo occupa la prima quartina, il secondo la seconda; il terzo periodo occupa la prima terzina, l’ultimo la seconda: quattro “quadri”, ognuno concluso in se stesso. Prevale la paratassi ( «e gli occhi...», «e par che sia...», «e par che...»); ma la fronte e la sirma del sonetto si aprono con due costruzioni ipotattiche del tutto simmetriche, due limpide proposizioni consecutive: «Tanto gentile ... ch’ogne lingua...» e «Mostrasi sì piacente... che dà...». Non ci sono inversioni nell’ordine “naturale” dei membri sintattici: di fatto, se provassimo a trascrivere il sonetto senza andare a capo alla fine di ogni verso, il risultato sarebbe un testo in prosa perfettamente coerente.

I SUONI Tutte le parole in rima sono piane, e nessuna è una rima difficile. La fronte e la sirma sono collegate dalla consonanza tra la rima A (-are) e le rime C e D (-ira e -ore), ma soprattutto dalla ripetizione del verbo mostrare alla fine del verso e all’inizio del verso successivo (è una tecnica di collegamento tra le parti del sonetto, o tra le stanze della canzone, abbastanza usuale nella lirica del Duecento). L’impressione di fluidità e dolcezza che si ricava dalla lettura non è dovuta soltanto alla semplicità della sintassi e delle parole ma anche alla ripetizione di alcuni suoni, a una – diciamo – “dominante fonica” che privilegia quelle che in linguistica si chiamano consonanti liquide: la erre e la elle. Si vedano soprattutto: «che dà peR gLi occhi una doLcezza al coRe, / che ’ntendeR no La può chi no La pRova; / e paR che de La sua Labbia si mova»; altre allitterazioni sono presenti alla fine della sirma, «MiRacol MostRaRe»; e nei due versi finali del testo, tutto tramato di esse: «Spirito Soave... /... SoSpira».

 
 
 
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INTRODUZIONE
 

Il lettore medievale che si accostava alla Commedia aveva talvolta (non sempre) un po’ di familiarità con i grandi poemi classici: l’Eneide di Virgilio, la Farsaglia di Lucano; oppure con le canzoni di gesta francesi. Ebbene, il primo canto dell’Inferno cala il lettore in un’atmosfera completamente diversa: non si parla di storia e di battaglie campali ma di un uomo che si è smarrito in un bosco; non si evocano luoghi remoti come la città di Troia o la Tessaglia ma si descrive un luogo misterioso che non si saprebbe collocare su alcuna carta geografica; soprattutto, il poeta non narra le vicende di Enea, o di Cesare e Pompeo, ma narra di sé, pone sé stesso al centro dell’azione, ci mette a parte dell’incredibile avventura che ha vissuto «nel mezzo del cammin» della sua vita. Dante-poeta si sdoppia in Dante-personaggio, e noi ci apprestiamo a leggere non solo la storia di un immaginario viaggio nell’aldilà, ma anche la storia di un uomo.

 
TESTO
 

L’inizio del viaggio

Commedia di Dante

Nel mezzo del cammin di nostra vita1
mi ritrovai per una selva oscura2
ché la diritta via3 era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia4 e aspra e forte5
che nel pensier6 rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte7;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai8,
dirò de l’altre cose9 ch’i’ v’ho scorte.

L’uscita dalla selva e l’incontro con le tre fiere

Proseguendo nel suo racconto, Dante spiega come è uscito dalla selva e dove si è trovato.

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno10 a quel punto
che la verace via11 abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle12 giunto,
là dove terminava quella valle13
che m’avea di paura il cor compunto14,
guardai in alto e vidi le sue spalle15
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle16.
Allor fu la paura un poco queta
che nel lago del cor17 m’era durata
la notte18 ch’i’ passai con tanta pieta19.
E come quei che con lena20 affannata
uscito fuor del pelago21 a la riva
si volge a l’acqua perigliosa e guata22,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva23.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia24 diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso25.
Ed ecco26, quasi al cominciar de l’erta27,
una lonza28 leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia29 dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto30.
Temp’era dal principio del mattino31,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta32 pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista33 che m’apparve d’un leone34.
Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.
Ed una lupa35, che di tutte brame
sembiava carca36 ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza37
con la paura ch’uscia di sua vista38,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.
E qual è quei che volontieri acquista39,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace40,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace41.
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco42,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco43.

L’incontro con Virgilio

Dopo il terribile incontro con le tre fiere, Dante scorge inaspettatamente, nella landa desolata dove è stato respinto, un essere umano. Non sa ancora chi è, ma – come si fa quando ci si trova in pericolo – si rivolge a questo sconosciuto in cerca d’aiuto.


Quando vidi costui nel gran diserto44,
«Miserere45 di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui46,
e li parenti47 miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi48.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise49 che venne di50 Troia,
poi che ’l superbo Ilïon fu combusto.
Ma tu perché ritorni a tanta noia51?
perché non sali il dilettoso monte52
ch’è principio e cagion di tutta gioia?».
«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte53
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos’io lui54 con vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e lume
vagliami55 ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume56.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore57,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo58 che m’ha fatto onore.
Vedi la bestia59 per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio60,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi61».


  1. Nel mezzo ... vita: a trentacinque anni, che come Dante scrive nel Convivio (IV XXIII, 9), sono il culmine dell’arcodell’esistenza di un uomo: dunque nel 1300 (data del giubileo indetto da Bonifacio VIII). La formula è ricalcata su un versetto di Isaia 38,10: «in dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi» (“A metà dei miei giorni me ne vado, sono trattenuto alle porte degli inferi”).

    A metà della mia vita mi ritrovai in una buia foresta, poiché avevo perso di vista la strada della virtù (diritta).
  2. per ... oscura: al valore letterale (buia foresta) si sovrappone (per riverbero dal verso seguente) quello allegorico, il labirinto del peccato o (rispetto a Dante-personaggio) il suo traviamento individuale.
  3. la diritta via: la strada buona, quella della rettitudine (riferita insieme al singolo protagonista e al genere umano).
  4. selva selvaggia: figura etimologica, che accosta parole con il medesimo etimo.

    Ahimè quanto è difficile e penoso descrivere la natura di questa (esta) foresta selvaggia, intricata e disagevole da attraversare, [tanto] che al solo ripensarci mi si rinnova lo spavento!
  5. forte: irta, difficile.
  6. nel pensier: al solo ripensarci.
  7. Tant’ è ... morte: la vita peccaminosa (simboleggiata nella selva) reca con sé un’angoscia che s’avvicina a quella della dannazione (la morte dell’anima).

    La foresta suscita un’angoscia (è amara) che si avvicina a quella della morte; ma per trattare del bene che incontrai nella foresta, parlerò delle altre cose che vi ho visto.
  8. del ... trovai: di ciò che di buono vi incontrai: il soccorso divino, attraverso la mediazione di Virgilio.
  9. l’altre cose: le tre fiere (che appariranno nella piaggia), o lo spettacolo del male cui lo introdurrà Virgilio.
  10. sonno: è anche, metaforicamente, un torpore dell’anima, indotto dal peccato. È metafora biblica; punto: allude all’inizio del suo traviamento.

    Non saprei riferire (ridir) con precisione come vi entrai, tanto ero pieno di sonno nel momento in cui abbandonai la via della verità.
  11. verace via: via della verità e del bene. Corrisponde alla «diritta via»
  12. un colle: allegoricamente, la vita virtuosa o la felicità terrena.

    Ma dopo che fui giunto ai piedi di un colle, là dove terminava quella valle che mi aveva trafitto il cuore di paura, guardai verso l’alto e vidi i pendii del colle già illuminati dai raggi del corpo celeste [il Sole] che guida ogni uomo nella giusta direzione per ogni sentiero.
  13. quella valle: la selva, la vita viziosa.
  14. compunto: trafitto.
  15. spalle: gioghi, declivi. I raggi che rischiarano il colle simboleggiano la Grazia illuminante.
  16. pianeta ... calle: perifrasi per il Sole, a norma della concezione aristotelico-tolemaica, il quarto pianeta rotante intorno alla Terra, che rischiara e guida i viventi nella giusta direzione (dritto) per tutti i sentieri (calle). Allegoricamente, la luce divina che illumina l’uomo sulla retta via; altrui: ogni uomo.
  17. lago del cor: la cavità del cuore in cui, secondo la fisiologia medievale, il sangue si rifugia in seguito a una forte emozione; e da ciò il pallore diffuso; durata: perdurata.

    Fu allora che cessò la paura, che era rimasta nella profondità del mio cuore per tutta la notte che trascorsi con tanto grande angoscia.
  18. la notte: nel duplice valore temporale e morale.
  19. pieta: angoscia che genera compassione (dal nominativo latino pietas).
  20. lena: respiro. Inizia qui la similitudine tra Dante e il naufrago.

    E come il naufrago (quei) che, con il respiro affannato, uscito dal mare e giunto alla riva, si volge all’acqua pericolosa e la contempla, allo stesso modo io, che nell’animo continuavo a fuggire dal pericolo appena superato, mi voltai indietro a guardare il passaggio che non risparmiò mai la vita a nessuno.
  21. del pelago: dal mare (dal latino pelagus).
  22. guata: la contempla con il terrore negli occhi; guatare è intensivo rispetto a “guardare” e stabilisce un rapporto coerente con paura, compunto, lago del cor, tanta pieta, lena affannata.
  23. lo passo ... viva: il passaggio (la selva e cioè il mare tempestoso del peccato) che conduce alla morte dell’anima, alla dannazione.
  24. piaggia: pendio che sta tra la selva e il colle.

    Dopo che ebbi (èi) concesso un po’ di riposo al mio corpo stanco, ripresi il cammino (via) attraverso il pendio solitario, in modo tale che il piede su cui appoggiavo (fermo) fosse sempre quello verso valle.
  25. sì che ... basso: in modo tale che il piede inferiore era quello su cui poggiavo, su cui a ogni passo facevo forza. Dante sta incamminandosi verso il colle e tenta via via il terreno con il piede anteriore, malfermo: la situazione non è tuttavia priva di valore allegorico (prime difficoltà o incertezze nello svincolarsi dal male per raggiungere il bene).
  26. Ed ecco: calco dell’evangelico Et ecce, e modulo caro a Dante per segnalare un improvviso mutamento di scena.

    Ed ecco apparire, quasi all’inizio della ripida salita, una lonza snella e molto rapida, coperta di pelo a macchie (macolato); non si allontanava da me, anzi ostacolava il mio cammino al punto che più volte mi girai (fui vòlto) per tornare sui miei passi.
  27. l’erta: la salita ripida, dopo la lieve pendenza della landa solitaria.
  28. una lonza: felino non bene identificato (francese antico lonce e once), ma più simile al leopardo o alla pantera che alla lince (forse il ghepardo). Altrettanto incerto il valore allegorico, ma è probabile che simboleggi la lussuria.
  29. partia: partiva, si allontanava.
  30. ch’i’ fui ... vòlto: che io mi disposi più volte a tornare sui miei passi (da notare la paronomasia volte / vòlto).
  31. Temp’era ... mattino: era l’alba (dal, “intorno al”).

    Era l’alba, e il sole sorgeva unito con quella costellazione [l’Ariete], che era con lui quando Dio diede agli astri (quelle cose belle) il primo moto della creazione; cosicché l’ora del giorno (mattino) e la dolcezza della stagione (primavera) mi davano motivo di non aver paura di quella belva dal mantello screziato; ma non fino al punto che non mi spaventasse la visione di un leone apparsomi all’improvviso.
  32. gaetta: screziata; dal provenzale caiet.
  33. vista: aspetto.
  34. un leone: simbolo della superbia (come risulta dall’atteggiamento del corpo: la testa sollevata).
  35. una lupa: allegoricamente, l’avidità, cioè il desiderio insaziabile di onori, di beni, di denaro.

    Sembrava che il leone venisse contro di me, con la testa alta e con una fame rabbiosa, così che pareva che l’aria tremasse per causa sua. E una lupa, che nella sua magrezza sembrava carica di ogni desiderio e fece già vivere afflitte (grame) molte genti, mi provocò un tale affanno con il suo aspetto spaventoso, che persi la speranza di raggiungere la cima del colle (l’altezza).
  36. di ... carca: sembrava carica di ogni bramosia.
  37. gravezza: affanno, pena (alla lettera “pesantezza”).
  38. di sua vista: dal suo aspetto.
  39. acquista: aduna beni, ricchezze.

    E come colui che volentieri accumula ricchezze, e quando arriva il tempo che gli fa perdere tutto ciò che ha guadagnato piange e si dispera in tutti i suoi pensieri, così mi rese quella bestia irrequieta, che venendo verso di me mi respingeva a poco a poco in quella foresta, in cui non penetra raggio di sole.
  40. sanza pace: irrequieta (perché insaziabile).
  41. mi ripigneva ... tace: mi respingeva nella selva oscura, dove non penetra raggio di sole. Da notare la splendida sinestesia, che unisce un’impressione visiva (la luce del Sole, qui assente) a una auditiva (il “silenzio” del Sole stesso, nell’oscurità della selva).
  42. rovinava ... loco: precipitavo verso il fondo (che è insieme il punto più basso della valle e del vizio).

    Mentre precipitavo verso il fondo, mi apparve all’improvviso davanti agli occhi una figura che, per aver taciuto a lungo, sembrava non avere più voce.
  43. chi ... fioco: è, sul piano allegorico, l’immagine fievole della voce della ragione che per molto tempo ha taciuto o è rimasta assente nella coscienza del peccatore. È meno probabile che fioco voglia dire, come altri commentatori propongono, “evanescente, pallido”.
  44. gran diserto: la piaggia.

    Quando vidi questa figura nel vasto luogo solitario, gridai: «Abbi pietà di me, chiunque tu sia, anima di defunto o uomo vivo!».
  45. Miserere: abbi pietà. È l’imperativo del verbo latino misereor. Qui della formula di invocazione religiosa miserere mei è riprodotta la prima parola, tradotta la seconda.
  46. Non ... fui: qui il gusto retorico medievale costruisce il gruppo sintattico anticipando prima la determinazione (Non) rispetto a omo, e poi facendola seguire (già fui), ottenendo così la figura del chiasmo.

    Mi rispose: «Non sono un uomo, ma lo fui, e i miei genitori erano dell’Italia settentrionale, entrambi mantovani di nascita.
  47. parenti: genitori (come parentes, in latino); lombardi: dell’Italia settentrionale. A simboleggiare la ragione umana e ad assumere la funzione di guida attraverso l’inferno e il purgatorio, Dante ha scelto Virgilio, il grande poeta latino nato ad Andes (l’odierna Pietole, presso Mantova) nel 70 a.C. e dunque sub Iulio, “all’epoca di Giulio Cesare”, sebbene vissuto (fino al 19 a.C.) sotto il regno di Augusto (63 a.C.-14 d.C.).
  48. de ... bugiardi: le divinità del paganesimo, prima della venuta del vero Dio.

    Nacqui all’epoca di Giulio Cesare, anche se troppo tardi per poter dire di essere vissuto sotto il suo principato [Virgilio aveva 26 anni quando Cesare fu ucciso], e vissi a Roma all’epoca del valente Augusto nel tempo del paganesimo.
  49. figliuol d’Anchise: Enea. Si allude appunto all’Eneide, il capolavoro di Virgilio.

    Fui poeta, e cantai del giusto figlio di Anchise [Enea], che venne in Italia da Troia dopo che la superba rocca della sua città (Ilïon) fu incendiata.
  50. di: da
  51. noia: pena, molestia (quella della selva oscura), lo stesso senso che ha oggi la parola ennui in francese.

    Ma perché tu ritorni alla grande pena della foresta? Perché non sali sul colle che conduce alla felicità, ed è origine e causa di ogni beatitudine (tutta gioia)?».
  52. dilettoso monte: il colle, che simboleggia la perfezione e la felicità terrena.
  53. fonte: sorgente. Metafora tradizionale cui s’adegua il successivo fiume.

    «Allora sei tu quel famoso Virgilio e quella sorgente da cui sgorga un così ampio fiume di eloquenza (di parlar)?», gli risposi con atteggiamento umile.
  54. lui: a lui; vergognosa: reverente, rispettosa. Il significato è: “con la fronte abbassata”.
  55. vagliami: mi valga.

    «O onore e luce degli altri poeti, mi siano di giovamento (vagliami) presso di te l’assiduo studio e il grande amore che mi hanno fatto studiare tutta la tua opera.
  56. cercar ... volume: percorrere e studiare tutta la tua opera; volume: l’Eneide, e le altre opere virgiliane, le Bucoliche e le Georgiche.
  57. maestro ... autore: scrittore prediletto e, al tempo stesso, in sé più prestigioso. Maestro è, etimologicamente, “colui che è più grande, che sta più in alto”, dal latino magister, che ha la stessa radice di magis e magnus, “grande”.

    Tu sei il mio maestro e il mio scrittore prediletto, tu sei la sola fonte da cui trassi lo stile elevato che mi ha dato fama.
  58. lo bello stilo: lo stile più elevato, quello “tragico” o “illustre” dell’alta poesia.
  59. bestia: la lupa.

    Vedi la belva a causa della quale mi voltai indietro; aiutami contro di lei, o famoso saggio, poiché essa mi impaurisce tanto da farmi tremare le vene e le arterie».
  60. saggio: non solo in quanto sommo poeta, ma per una sua particolare e leggendaria qualità di filosofo, vate e indovino riconosciutagli da tutto il Medioevo, sulla base soprattutto dell’egloga IV delle Bucoliche, considerata una profezia della nascita di Cristo.
  61. polsi: le arterie, dove pulsa il sangue.

 
ANALISI DEL TESTO
 

L’inizio del viaggio

UNA PAURA NON SOLO METAFORICA Al tempo di Dante, “smarrirsi in una selva” era possibile. Oggi è una cosa difficile anche solo da immaginare: ma il mondo che si apriva al di fuori delle città (che erano molto più piccole rispetto a oggi: Firenze aveva più di cinquantamila abitanti, ed era una delle più grandi città europee) era un mondo pericoloso, perché popolato spesso sia da uomini ostili (briganti, avventurieri) sia da animali pericolosi. L’idea della «selva oscura» oggi non ci fa paura. Ma un lettore del Trecento aveva una percezione molto più chiara sia di quanto fosse pericoloso trovarsi da soli in una foresta sia di quanto le foreste, appena fuori dalle mura cittadine, fossero oscure. Non c’erano lampioni o torce per le strade. Spesso, non c’erano neppure le strade, solo dei sentieri accidentati. Leggendo questo inizio di canto, quindi, dobbiamo fare uno sforzo e calarci nella mentalità e nello spirito di un lettore medievale: questo lettore sapeva bene che cosa fosse una «selva selvaggia», e conosceva la paura che si poteva provare smarrendosi in essa.

*Inferno
È la forma sostantivata dell’aggettivo latino infernus, che significava “che sta sotto, in basso”: nell’Eneide di Virgilio, il fiume Stige è la inferna palus (“palude sotterranea”) e Pluto, re del mondo sotterraneo, è detto infernus rex. L’idea di un luogo nel quale i peccatori vengono puniti con le torture e con il fuoco è presente in molte religioni, dall’Egitto alla Grecia, ma si trova soprattutto nella Bibbia, tanto nell’Antico quanto nel Nuovo Testamento: è lo shĕ ōl, che la Vulgata, cioè la prima traduzione in latino della Bibbia, rende appunto infernus. Con il Concilio Lateranense IV (nel 1215) diventa parte della dottrina della Chiesa cattolica: non si specifica quale sia il luogo esatto dell’inferno, dove esso si trovi, ma si professa la sua esistenza e si parla (e il concetto tornerà in Dante) di un doppio ordine di pene per i dannati: la privazione della vista di Dio e la tortura del fuoco eterno.

L’uscita dalla selva e l’incontro con le tre fiere

LA SELVA E LE TRE FIERE La Commedia non si presenta, a tutta prima, come sogno o visione ma come reale esperienza. Nel trentacinquesimo anno della sua vita (il «mezzo del cammin»), l’autore, che per distrazione e stanchezza ha smarrito la «diritta via», si ritrova in una foresta buia e spaventosa. Ma la foresta finisce, e il protagonista si trova ai piedi di un colle illuminato dalla luce del sole. Questo lo risolleva un po’, e dopo una breve sosta inizia a scalare il colle. La scalata è però ostacolata da tre animali selvatici che lo minacciano e lo costringono a rallentare, e poi quasi lo convincono a rinunciare all’ascesa: una lonza, cioè un felino simile al leopardo o alla pantera (nel loro commento, Umberto Bosco e Giovanni Reggio fanno notare che «un documento del 1285 ricorda una leuncia tenuta in gabbia presso il palazzo del Podestà a Firenze, che Dante avrà certamente visto»), un leone (un animale che Dante poteva aver visto in un serraglio, oppure nelle decorazioni scultoree delle chiese, o disegnato in uno stemma gentilizio) e una lupa (un animale comune nei boschi, a quel tempo). Questa, la più pericolosa e famelica delle tre, lo respinge verso il basso. E mentre Dante scende la china del colle, vede all’improvviso un uomo.

NÉ SOGNO NÉ VISIONE Dante non dice di essersi addormentato (come dirà Petrarca all’inizio dei Trionfi: «vinto dal sonno, vidi una gran luce»); né dirà, nel seguito del racconto, che si tratta di un viaggio fatto soltanto in sogno; né la Commedia finisce con un risveglio (così finiva per esempio la “visione” del Roman de la Rose). Nell’ultimo canto della Commedia Dante è ben sveglio e cosciente, e contempla la perfezione del creato e il Creatore stesso. Tutto, insomma, è presentato come se fosse accaduto veramente, sicché il lettore finisce per condividere l’angoscia del protagonista, che non sa qual è il monte che sta scalando, non sa perché contro di lui si schierano le tre bestie feroci, non sa, almeno in un primo momento, chi è l’uomo che vede e che lo salva mentre sta rovinando «in basso loco». È solo, è in pericolo e non sa dove si trova. È difficile pensare a un altro racconto medievale in cui l’incertezza circa il luogo in cui si situa il racconto duri così a lungo. Se fosse un sogno, tutto sarebbe subito chiaro. Se fosse pura allegoria, anche. Ma il fatto che sogno e veglia, lettera e allegoria non si lascino separare con un taglio netto acuisce il senso di mistero (e anche la bellezza del poema, s’intende).

DAL SIGNIFICATO LETTERALE A QUELLO SIMBOLICO Già in questo breve brano iniziale c’è qualcosa che renderebbe inadeguata un’interpretazione soltanto letterale, come se si trattasse semplicemente di un uomo qualsiasi che si perde in un bosco qualsiasi. Quando Dante dice di aver superato il «passo / che non lasciò già mai persona viva», è evidente che il passo di cui sta parlando è sì un luogo fisico (la selva oscura), ma è un luogo fisico che rimanda a una condizione spirituale (la selva come luogo del peccato che uccide l’anima di chi vi soggiorna e non sa liberarsene). E quando leggiamo che la lupa reale che si para dinnanzi a Dante «molte genti fé già viver grame», è evidente che questa lupa non è soltanto un animale feroce ma anche un simbolo di un vizio “che ha causato la miseria e l’infelicità di molta gente”. Ecco allora che anche altri dettagli contenuti in questi primi versi si caricano di significati ulteriori: la selva è anche quella del peccato; lo smarrimento riguarda non solo il corpo del viandante ma la sua anima; il colle illuminato dal sole è anche il luogo alla sommità del quale Dante potrebbe trovare la salvezza; i tre animali che gli bloccano il cammino sono allegorie di tre vizi o inclinazioni al peccato, che distolgono il cristiano dalla strada della salvezza: la lonza è simbolo della lussuria, il leone della superbia, la lupa dell’avidità. È solo l’inizio, ma è un annuncio di quella che sarà una costante del poema: questa continua oscillazione tra le cose, i personaggi, gli eventi, e il loro significato allegorico.

L’incontro con Virgilio

VIRGILIO: UNA SCELTA MOTIVATA L’uomo che Dante scorge nel gran diserto non dice il proprio nome: dichiara invece la sua terra d’origine, Mantova, e la sua epoca, l’età di Ottaviano Augusto (Ottaviano nacque nel 63 a.C. e morì nel 14 d.C.); e cita la sua opera poetica maggiore, la storia di Enea, figlio di Anchise, cioè l’Eneide. Dante riconosce con commozione il poeta Virgilio (70-19 a.C.), salutandolo come maestro e autore. Virgilio, l’autore dell’Eneide, era stato infatti la sua guida ideale durante la vita, il poeta che Dante aveva eletto a suo modello: non è strano, quindi, che egli lo scelga come suo compagno di viaggio anche nell’oltretomba. Tuttavia, la scelta di Virgilio come «maestro» nella Commedia ha anche ragioni meno personali. Da un lato, Virgilio è il cantore dell’Impero, e colui che mostra, nell’Eneide, come la fondazione di Roma adempia il volere degli dei: e Roma e l’Impero romano avevano, per Dante, un ruolo provvidenziale nella storia della cristianità, perché l’Impero di Ottaviano Augusto riesce nell’impresa di pacificare il mondo, perché Cristo nasce nel territorio dell’Impero, e perché Roma è il luogo in cui san Pietro fonderà la Chiesa: sicché Roma è una città sacra sia per Virgilio sia per Dante. Dall’altro lato, Virgilio è il poeta che nel sesto libro dell’Eneide descrive la discesa dell’eroe Enea nell’oltretomba pagano: al di là dell’amore che Dante nutriva per l’Eneide, quel libro è il precedente, il termine di paragone più importante per l’invenzione di Dante. Insomma, Virgilio si accompagna a Dante per più ragioni: è il poeta che Dante considera più importante per la sua formazione; è colui che ha rivelato la funzione provvidenziale dell’Impero romano; ed è a lui che risale l’idea della discesa di un vivo nel mondo dei morti.

L’ACCENNO A UNA NUOVA, MISTERIOSA GUIDA Virgilio accetta di aiutare Dante. Ma gli spiega che la strada che dovranno fare non è quella che porta alla cima del monte (metaforicamente: non è quella che porta subito alla salvezza); dovranno invece fare un percorso molto più lungo, che li porterà prima all’inferno e poi in purgatorio. Dopodiché, se Dante vorrà proseguire e salire in paradiso, a guidarlo sarà «un’anima più degna» di lui, che, essendo un pagano e non avendo conosciuto il vero Dio, non può aspirare al cielo. «Con lei» dice Virgilio «ti lascerò nel mio partire». I due si avviano insieme, e il canto, che si era aperto su una scena misteriosa (un uomo smarrito in una selva), si chiude su quest’altro piccolo mistero: chi è l’anima che dovrà scortare Dante tra i beati?

COME UNA MODERNA SCENEGGIATURA Dante – si può osservare – usa spesso questi meccanismi di “ritardamento”: introduce un elemento nuovo nel racconto ma non lo spiega, lo lascia nel vago, in modo da creare un effetto di sospensione e da invogliare il lettore a proseguire nella lettura. Naturalmente l’effetto è particolarmente sensibile quando l’elemento nuovo e la sua spiegazione cadono alla fine del canto. Per esempio, alla fine del canto XXXII dell’Inferno Dante vede un uomo che, come un animale feroce, mastica il cranio di un altro uomo. Gli chiede di dirgli il suo nome. Proprio a questo punto finisce il canto, e la risposta arriva nel canto successivo, l’uomo è il conte Ugolino. Se ci si pensa, è il genere di artificio che si usava un tempo nei feuilletons, cioè nei romanzi che venivano pubblicati a puntate sui giornali, e che oggi si usa nelle serie televisive: finire la puntata non con la soluzione di un enigma ma con un’immagine o un evento inaspettato, che costringa chi legge a domandarsi «come andrà a finire?» (nel gergo televisivo e del cinema questo artificio si chiama cliffhanger, alla lettera “sospeso a una scogliera”).

IL MISTERO SVELATO: BEATRICE SARÀ LA SECONDA GUIDA Tornando all’identità dell’anima che prenderà in consegna Dante e lo accompagnerà in paradiso, il mistero si scioglierà molto presto, all’inizio del II canto: qui Virgilio rivela infatti a Dante che si tratta di Beatrice, la giovane donna che Dante aveva amato in gioventù, e che nel 1300 (l’anno in cui Dante finge si svolga il viaggio) era già morta da un decennio: è lei, del resto, che ha chiesto a Virgilio di andare in soccorso di Dante, preoccupata com’era per la salvezza del suo (come Beatrice stessa lo definisce) amico. Si chiarisce così ancora meglio la natura allegorica della selva e della diritta via che Dante ha perduto. La selva è sì una foresta scura, pericolosa, abitata da animali feroci, ma è anche immediatamente il simbolo di una condizione di smarrimento spirituale, di peccato, una crisi che Dante deve aver vissuto realmente nel mezzo del cammino della sua vita. Il percorso nell’oltretomba, con l’arrivo a Beatrice, poi a Dio, è dunque, per Dante, un percorso di espiazione: Dante deve vedere per purificarsi e per guardarsi dai peccati che vengono puniti nell’inferno e nel Purgatorio.

 
 
 
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