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INTRODUZIONE
 

L’opera

I romanzi e i racconti di King costituiscono un vero e proprio caso editoriale a livello mondiale, amplificato dalla formidabile cassa di risonanza costituita dagli adattamenti cinematografici. Concentrando la quintessenza dei grandi maestri “neri” del passato (in primo luogo Stoker, autore di Dracula), King costruisce meccanismi narrativi perfetti, creando un tale clima di tensione e di attesa, che il lettore rimane con il fiato sospeso fino all’ultima pagina. La carta vincente di questo autore è la sua capacità di far scaturire l’orrore dalla quotidianità più monotona e banale, dove i risvolti e le manifestazioni più paurose sono assolutamente imprevedibili e perciò tanto più sconvolgenti. Ecco allora che il tranquillo scenario suburbano statunitense, con le sue schiere di pacifiche e innocue villette-con-piscina sepolte nel verde, con i suoi ordinari personaggi casalingo-impiegatizi, si popola di presenze e di individui mostruosi, terrorizzanti, capaci della più inaudita e truculenta violenza. Le creature di King sono perfette materializzazioni del «Male» allo stato puro, una forza distruttrice e perversa che può forse essere elusa, ma mai definitivamente sconfitta e annientata.

Il racconto

Il racconto che presentiamo, ambientato ai giorni nostri, si innesta nella più pura tradizione del vampirismo. I nomi delle località sono inventati, ma come accade quasi sempre nelle opere di King, essi riflettono in modo evidente il tipico paesaggio del Maine, dove lo scrittore è nato. La narrazione si sviluppa secondo uno schema tradizionale, dalla situazione iniziale di equilibrio al susseguirsi di eventi tali da determinare un’atmosfera sempre più tesa e coinvolgente, fino all’epilogo, accompagnato da un diretto appello al lettore: il Male non è stato distrutto e potrebbe, dunque, ripresentarsi all’improvviso, in modo del tutto inatteso.

 
TESTO

Erano le dieci e un quarto di sera ed Herb Tooklander si accingeva a chiudere per la notte, quando un uomo dal cappotto elegante, con un viso bianco e allucinato, piombò nel suo bar, nella zona nord di Falmouth. Era il 10 gennaio, proprio il periodo dell’anno in cui la gente si è già bellamente dimenticata i buoni propositi non mantenuti di Capodanno; fuori infuriava una tempesta infernale proveniente da nord-est. I primi quindici centimetri di neve, caduti prima del tramonto, erano andati via via aumentando con l’avanzare della notte. Per ben due volte Billy Larribee era stato visto salire nella cabina di manovra dello spazzaneve municipale, e la seconda volta Tookey1 gli aveva anche fatto avere una birra – un vero gesto di carità, l’avrebbe definito mia madre, e Dio sa se anche lei non ne ha trangugiata parecchia, ai suoi bei tempi. Billy gli aveva detto che sulla strada principale l’avevano tolta quasi tutta, ma che le strade secondarie erano chiuse e tali probabilmente sarebbero rimaste fino alla mattina seguente. La radio di Portland2 segnalava il continuo accumularsi della neve sotto la spinta del vento a settanta chilometri l’ora. C’eravamo solo io e Tookey nel bar. Tendevamo l’orecchio al fischio del vento tra le grondaie osservandone l’effetto sulla fiamma del focolare. «Facciamoci l’ultimo alla salute della strada, Booth», mi fa Tookey, «è ora di chiudere bottega». Stava versando un bicchiere per me ed uno per sé quando la porta si spalancò e lo sconosciuto entrò barcollando con i capelli e le spalle coperte di neve come se si fosse rotolato nello zucchero a velo. Dietro di lui ondeggiava un candido lenzuolo di neve impalpabile gonfiato dal vento.
«Chiuda quella porta!» ringhiò Tookey «Sarà mica nato in una stalla?».
Non avevo mai visto nessuno così terrorizzato. Sembrava proprio che avesse visto un fantasma. Ruotò gli occhi verso Tookey e riuscì solo a dire: «Mia moglie… mia figlia». Poi crollò a terra stremato. Poco dopo, l’uomo riprende i sensi, grazie al calore del focolare e ad un bicchiere di brandy. Ancora sconvolto, dice di chiamarsi Jerry Lumley e racconta di essere giunto lì a piedi in cerca d’aiuto. L’auto sulla quale viaggiava con la sua famiglia è rimasta bloccata nella neve, a parecchie miglia di distanza, lungo un tratto di strada interrotta nei pressi di una cittadina stranamente deserta, Jerusalem’s Lot. La moglie e la figlia, una bambina di sette anni, sono rimaste all’interno della vettura, con il riscaldamento acceso, in attesa che egli ritorni con un mezzo di soccorso. «Che razza di città è questa Jerusalem’s Lot?» chiese. «Perché la strada era interrotta? E non c’era neanche una luce?» Risposi io: «Jerusalem’s Lot è stata distrutta da un incendio due anni fa». «E non l’hanno ancora ricostruita?» Sembrava che non ci credesse. «Così pare», dissi, e mi girai verso Tookey. «Che cosa facciamo?» «Non possiamo lasciarle là fuori», disse lui. Mi avvicinai. Lumley si era diretto verso la finestra e scrutava la notte tempestosa. «E se fossero già state raggiunte?» chiesi. «Può essere», rispose Tookey, «ma non possiamo esserne certi. La mia Bibbia è sullo scaffale. E tu, porti sempre quella tua medaglia del Papa?». Tirai fuori il mio crocifisso dalla camicia e glielo mostrai. Sono nato e cresciuto congregazionalista3, ma molti di quelli che vivono presso il Lot portano oggetti del genere: un crocifisso, una medaglia, un rosario, insomma cose di questo tipo, perché due anni fa, nel breve volgere di un oscuro mese di ottobre, il Lot è andato in rovina. Se ne parlava a volte a notte alta quando nel bar restavano pochi frequentatori abituali. Si girava intorno all’argomento, per essere esatti. Vedete, il fatto è che nel Lot la gente era cominciata a sparire; prima qualcuno, poi un bel numero, e alla fine praticamente tutti. Le scuole avevano chiuso. Per più di un anno è stato il deserto. Oh, a qualcuno venne in mente di trasferirvisi – specialmente pazzi furiosi giunti da altri stati come questo bell’esemplare – attirato, forse, dai prezzi stracciati di case e terreni. Ma durò poco. Molti di essi già dopo un mese o due se ne erano andati, gli altri… beh, spariti. Poi ci fu l’incendio, alla fine di un lungo periodo di siccità. Si dice che tutto sia iniziato alla Marsten House sulla collina che sovrasta Jointner Avenue, ma ancora oggi non se ne conoscono le cause. Il fuoco dilagò incontrollato per tre giorni. Seguì un periodo di calma, ma poi la storia ricominciò. Ho sentito pronunciare la parola vampiri una sola volta. Fu una sera che il camionista pazzo, Richie Messina che veniva dalle parti di Freeport e trasportava pasta di legno, era da Tookey, pieno d’alcool fino agli occhi. Tookey mi guardava e io guardavo lui, e intanto mi infilavo di nuovo il crocifisso nella camicia. Non mi ero mai sentito così vecchio e impaurito in tutta la vita. Tookey ripeté: «Non possiamo lasciarle là fuori, Booth». «Sì, lo so. » Ci guardammo ancora per un momento, poi lui si avvicinò mettendomi una mano sulla spalla. «Sei un brav’uomo, Booth.» Questo bastò a tirarmi su. A volte si direbbe che, passati i settanta, la gente si dimentichi che anche tu sei un uomo, e persino che lo sei stato. Tookey si diresse verso Lumley dicendogli: «Ho un fuoristrada. Vado a tirarlo fuori». Sfidando la bufera a bordo del fuoristrada, i tre uomini riescono a giungere a Jerusalem’s Lot. Trovano l’auto di Lumley, già semisepolta dalla neve, con i fanali di coda ancora accesi. Uscimmo tutti, e il vento ci travolse, gettandoci la neve sulla faccia. Lumley per primo, curvo, con il cappotto elegante che si gonfiava dietro come una vela. Il suo corpo proiettava due ombre, una dovuta ai fari anteriori dell’auto di Tookey, l’altra a quelli posteriori della sua. Io seguivo dietro e Tookey stava a un passo da me. Quando arrivai al baule della Mercedes, Tookey mi trattenne. «Lascialo fare», disse. «Janey! Francie!» strillò Lumley. «Tutto bene?» Aprì con forza la portiera dalla parte del guidatore e si piegò all’interno. «Tutto… » Si irrigidì, agghiacciato. Il vento gli strappò di mano la pesante portiera, spalancandola. «Dio santo, Booth», gridò Tookey, il cui tono di voce era poco più basso dell’urlo del vento, «credo che sia successo di nuovo». Lumley si girò verso di noi, terrorizzato e disorientato, con gli occhi spalancati. Improvvisamente iniziò a correre verso di noi in mezzo alla neve, scivolando di continuo quasi fino a cadere. Mi spinse da una parte come se non esistessi e afferrò Tookey per il bavero. «Come lo sapeva?» ruggì. «Dove sono loro? Che cosa diavolo sta succedendo?» Tookey si liberò dalla presa e lo spinse da parte. Guardammo tutti e due dentro la Mercedes. C’era ancora un bel calduccio, che certo non sarebbe durato ancora per molto. La spia della benzina era accesa e la grande vettura, vuota; c’era una bambola Barbie sullo stuoino di fianco al posto di guida e un giaccone spiegazzato sullo schienale. Tookey si coprì il viso con le mani e… improvvisamente sparì. Lumley l’aveva afferrato e spinto contro il muro di neve. Aveva il volto tremendamente pallido. Muoveva la bocca come se stesse masticando qualcosa di molto amaro che non riusciva a sputar fuori. Si avvicinò e prese il giaccone. «Il giaccone di Francie», mormorò. E poi più forte, urlando: «Il giaccone di Francie». Si girò tenendolo dritto davanti a sé per il cappuccio foderato di pelo. Mi guardò, pallido e incredulo. «Non può essere fuori senza giaccone, signor Booth. Perché… perché… morirà di freddo». «Signor Lumley…» Si agitava, sempre stringendo il giaccone e strillando: «Francie! Janey! Dove siete? Dove siete?». Diedi una mano a Tookey per aiutarlo a rimettersi in piedi. «Sei tutto…» «Non preoccuparti per me», fa lui, «dobbiamo fermarlo, Booth». Lo inseguimmo più veloci che potevamo, non certo a una gran velocità, visto che in certi punti si affondava nella neve fino ai fianchi. Poi si fermò e noi riuscimmo a raggiungerlo. «Signor Lumley», cominciò Tookey mettendogli una mano sulla spalla. «Da questa parte», disse Lumley, «sono andate di qua. Guardate!». Abbassammo lo sguardo. Ci trovavamo in una pendenza del terreno per cui quasi tutto il vento passava al di sopra delle nostre teste. Si distinguevano due serie di tracce, una più grande e una più piccola, che si stavano riempiendo di neve. Ancora cinque minuti e sarebbero scomparse. Cominciò a seguirle, con la testa china, ma Tookey lo trattenne. «No! No, Lumley!» Lumley, pallido, si voltò verso Tookey e gli agitò selvaggiamente contro il pugno. Poi lo ritirò … perché qualcosa nell’espressione di Tookey lo fece vacillare. Spostò lo sguardo verso di me e poi di nuovo verso Tookey. «Congelerà», disse, come se si rivolgesse a due bambini idioti. «Non lo capite? È senza giaccone e ha solo sette anni…» «Potrebbero essere ovunque», disse Tookey, «è impossibile seguire queste tracce… alla prossima folata di vento scompariranno». «Lei che cosa suggerisce di fare?» urla Lumley con voce forte e isterica. «Se torniamo indietro a chiamare la polizia, morirà di freddo! Francie e anche mia moglie!» «Potrebbero già essere assiderate», disse Tookey. I suoi occhi fissavano quelli di Lumley. «Assiderate o qualcosa di peggio». «Cosa intende dire?» mormorò Lumley. «Parli chiaro, per Dio! Me lo dica!» «Signor Lumley», disse Tookey, «nel Lot c’è qualcosa…». Fui io a concludere la frase, con quella parola che mai mi sarei aspettato di pronunciare: «Vampiri, signor Lumley. Jerusalem’s Lot è piena di vampiri. Mi rendo conto che è difficile crederci…». […] E allora ci fu una voce: usciva dal buio come un tintinnio di campanelli d’argento, mi raggelò il cuore come ghiaccio in una cisterna. «Jerry, Jerry … sei tu?» A quel suono Lumley ruotò su se stesso. Lei allora venne avanti, scivolando fuori dall’ombra di un gruppetto d’alberi come un fantasma. Senza dubbio una signora di città, senz’altro la donna più bella che mi fosse capitato di vedere. Mi venne voglia di andarle incontro e dirle quanto mi facesse piacere che, dopotutto, fosse salva. Indossava una specie di pullover pesante, verde, mi pare che si chiami «poncho», che le fluttuava intorno. I capelli, neri, ondeggiavano per il forte vento come l’acqua di un fiume in inverno, prima che il gelo la imprigioni nel ghiaccio. Avevo forse azzardato un passo verso di lei perché sentii sulla spalla la mano di Tookey, rude e calda. Tuttavia – come dire – anelavo4 a lei, così misteriosa e splendida nel poncho verde che le fluttuava intorno al collo e alle spalle, così esotica e stravagante da far pensare a qualche bella donna fuoriuscita da un poema di Walter de la Mare5. «Janey!» implorò Lumley. «Janey!» E iniziò a correre verso di lei dibattendosi nella neve, con le braccia tese. «No!» gridò Tookey, «No, Lumley!» Lui non lo guardò neppure… ma lei sì. Ci guardò con un ghigno. E fu sufficiente perché il mio desiderio e il mio anelito si tramutassero in orrore, un gelo di tomba, freddo e silenzioso come ossa in un sudario6. Anche dall’alto della nostra altura, potevamo scorgere distintamente il rosso cupo di quegli occhi in confronto ai quali sembravano più umani anche quelli di un lupo. E quando sogghignava potevamo vedere quanto le si fossero allungati i denti. Non era più una donna ma una cosa morta tornata in vita chissà come nel bel mezzo di una terribile tempesta. Tookey fece il segno della croce nella sua direzione. Lei balzò indietro… e sogghignò di nuovo. Eravamo troppo lontani e forse anche troppo terrorizzati. «Fermalo!» mormorai. «Non riusciamo a fermarlo?» «Troppo tardi, Booth», mi fa Tookey minaccioso. Lumley intanto l’aveva raggiunta. Coperto com’era di neve, sembrava lui stesso un fantasma. Appena le fu vicino… cominciò a gridare. Un urlo che mi tornerà alla mente per sempre, l’urlo di un uomo che era come un bambino in preda a un incubo. Fece un tentativo di allontanarsi da lei, ma le sue braccia, lunghe, nude e bianche come la neve, lo incatenarono attirandolo a sé. La vidi drizzare la testa e poi sporgerla in avanti… «Booth!» disse Tookey rauco, «dobbiamo cercare di andarcene da qui!». E allora iniziammo a scappare – come topi, potrebbe con sciocco sarcasmo commentare chi non sia stato lì quella notte. Fuggimmo seguendo a ritroso le nostre stesse tracce, cadendo, rialzandoci, slittando e scivolando. Continuavo a guardarmi alle spalle per assicurarmi che la donna non ci stesse seguendo, ghignando e con quegli occhi rossi. Finalmente raggiungemmo il fuoristrada. Girai di corsa intorno all’auto e, dannazione, piombai addosso a una bambina: era in attesa vicino alla portiera del posto di guida, con le treccine nei capelli e nient’altro che un semplice vestitino giallo. «Signore» disse con voce forte e chiara, dolce come la bruma7 del mattino, «potrebbe aiutarmi a trovare la mia mamma? Se ne è andata e io ho tanto freddo…». «Tesoro», risposi «tesoro caro, è meglio che tu salga. La tua mamma è…» Qui mi interruppi, e se c’è mai stato nella mia vita un momento in cui fui sul punto di svenire dallo spavento, fu questo. Vedete, la bambina stava sopra la superficie nevosa senza affondare di un millimetro e senza lasciare tracce, in nessuna direzione. Allora lei mi guardò di sotto in su, proprio lei, Francie, la figlia di Lumley. Non aveva più di sette anni, e tali sarebbero rimasti per l’eternità; il suo faccino era di un pallore spettrale; i suoi occhi rossi e fosforescenti, mi attiravano come in un precipizio, e sotto il mento aveva due buchini simili a punture di spillo, dagli orli orribilmente lacerati. Mi tendeva le braccia sorridendo. «Mi prenda in braccio, signore», diceva dolcemente, «voglio darle un bacio. Poi potrà portarmi dalla mia mammina». Io non volevo, ma una forza superiore alla mia volontà mi induceva a sporgermi in avanti con le braccia tese. Aveva aperto la bocca, e nel cerchio roseo delle sue labbra potevo scorgere con chiarezza due piccole zanne. Le scivolò sul mento qualcosa, di argenteo e luminoso, e fu con vago senso di orrore che mi resi conto che era bava. Due tenere manine mi si strinsero intorno al collo mentre pensavo: «Beh, forse non è poi tanto male, non tanto, forse dopo un po’ non sarà più così terribile» – quando qualcosa di nero volò fuori dall’auto e la colpì dritta nel petto. Seguì una specie di folata di fumo dall’odore strano, un lampo di luce che subito si spense, poi lei incominciò ad indietreggiare sibilando. Il volto si era trasformato in una maschera volpina8 che esprimeva rabbia, odio e dolore. Si voltò di fianco e un attimo dopo… non c’era più. Al suo posto, era rimasto solo un contorto grumo di neve dalla forma vagamente umana che il vento si trascinava via verso i campi. «Booth», mormorò Tookey, «fai presto, adesso». Feci del mio meglio, ma non dimenticai di raccogliere ciò che aveva scagliato contro la bambina infernale: la Bibbia9 di sua madre. Tutto questo, tempo fa. […] Potrebbe capitare anche a voi di venire nel Maine un giorno o l’altro. C’è una gran bella campagna. Potreste anche fermarvi al bar di Tookey per un bicchiere. È proprio un locale carino. Ha conservato il vecchio nome. Bevetevi pure il vostro bicchiere ma, se posso darvi un consiglio, ripartite subito verso nord e, in ogni modo, qualunque sia la vostra meta, evitate di imboccare quella strada per Jerusalem’s Lot. Specie se è già buio. Da quelle parti si aggira una bambina, e, a quanto ne so io, sta aspettando ancora il bacio della buonanotte.

(S. King, Alla salute della strada, trad. it. di A. Guerzoni, in Vampire, Mondadori, Milano 1991)

  1. Tookey: diminutivo di Tooklander.
  2. Portland: città dello Stato del Maine, sulla costa atlantica degli USA nordorientali, tra Canada e New Hampshire.
  3. congregazionalista: appartenente a una congregazione di chiese protestanti inglesi e americane, in cui la singola assemblea dei fedeli ha potere sovrano.
  4. anelavo: tendevo con ardore.
  5. Walter de la Mare: poeta e romanziere inglese, (1873-1956), raffinato evocatore di atmosfere irreali e fiabesche.
  6. sudario: lenzuolo funebre.
  7. bruma: nebbia leggera.
  8. volpina: dalle fattezze aguzze, come quelle del muso di una volpe.
  9. La Bibbia: i vampiri, secondo la credenza popolare, rifuggono da libri e oggetti sacri.

ANALISI DEL TESTO

L’inquietante normalità L’autore sa giocare sapientemente con il lettore, coinvolgendolo in modi diversi: attraverso l’impiego del discorso diretto, che lo cala immediatamente nell’azione; usando espressioni allusive, che soltanto intuitivamente si possono connettere al tema centrale (i vampiri), incentivando la suspense; indugiando sul realismo dei particolari e dell’ambiente (la radio, il bar, la fiamma del focolare, tutto sommato anche la tempesta di neve, fenomeno atmosferico usuale nel Maine), in cui il lettore inconsapevole si sente a suo agio, ma che si rivela a poco a poco ingannevole.

Il fascino del Male Osserva come l’autore indugi volutamente sulla descrizione della donna, definita la più bella che mi fosse capitato di vedere, misteriosa, splendida, esotica, con i capelli neri ondeggianti al vento e il poncho fluttuante intorno a lei come un mantello: il suo intento è quello di rendere ancora più spaventevole e inquietante la rivelazione che emergerà all’improvviso da questa figura particolare e piena di irresistibile fascino.

L’agghiacciante verità Il racconto raggiunge la fase di massima tensione (Spannung) concentrandola in due “picchi”: il primo corrisponde alla drammatica fine di Lumley, che il narratore non descrive per lasciarla sapientemente intuire e immaginare al lettore; il secondo, immediatamente successivo e ancora più intenso, coincide con il ritrovamento della bambina, Francie, e il suo raccapricciante tentativo di vampirizzare Booth.

BIOGRAFIA DELL'AUTORE

Stephen Edwin King, nato a Portland (nello Stato americano del Maine) nel 1947, è uno tra i più celebri autori di racconti e romanzi horror. Ancora adolescente, dopo aver letto i racconti di Poe e di Lovecraft, inizia ad appassionarsi alla scrittura. Terminata l’università, si dedica per un breve periodo all’insegnamento, durante il quale pubblica il suo primo romanzo, Carrie (1974), che ottiene un ottimo riscontro di critica e di pubblico. A dispetto del periodo di grande successo internazionale, iniziano i problemi di King derivati dall’abuso di alcol e di sostanze stupefacenti. La sua tossicodipendenza viene per molto tempo sottovalutata, dal momento che non incide negativamente sulla sua attività lavorativa, e solo all’inizio degli anni Novanta l’intervento di familiari e amici lo mette di fronte al problema, portandolo a intraprendere un lungo processo di disintossicazione. Superato questo difficile periodo, King colleziona una serie di clamorosi successi editoriali. Tra i romanzi più famosi ricordiamo Le notti di Salem (1975), Shining (1977), Cujo (1981), It (1987), Il miglio verde (1996), Doctor Sleep (2013), L’istituto (2019); tra le raccolte di racconti, A volte ritornano (1978), Incubi & deliri (1993), Notte buia senza stelle (2010), Se scorre il sangue (2020).

 
 
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