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INTRODUZIONE
 

L’opera

Avventure di terra, di giungla e di mare comprende diciassette racconti, raggruppati sulla base dell’ambientazione (l’America, le terre dei ghiacci, l’Oriente lontano e misterioso ecc.). Gli “ingredienti” sono quelli tipici di ogni opera di Salgari, infatti ritroviamo le foreste impenetrabili, gli oceani sconfinati, le tigri mangiatrici di uomini, eroi senza cedimenti e donne misteriose e affascinanti. I racconti sono scritti seguendo il metodo lungamente sperimentato da uno scrittore che è stato soprattutto un viaggiatore virtuale: in primo luogo, egli si avvale di una documentazione approfondita e rigorosa riguardo alla geografia nonché agli usi e costumi dei luoghi esotici in cui ha deciso di collocare le sue storie; inoltre, potendo contare su una fantasia senza limiti, riesce a sviluppare, con innumerevoli varianti, poche e semplici situazioni (le sofferenze di un innocente perseguitato; i contrasti amorosi; la vendetta; la giustizia ristabilita e così via). Anche nei testi brevi Salgari si rivela un maestro dell’avventura, capace ancora oggi, come pochi altri, di guidarci in dimensioni lontanissime e favolose e in vicende così emozionanti da farci desiderare di esserne i protagonisti.

Il testo

Nella giungla selvaggia, il giovane Konhor affronta un nemico feroce, dimostrando coraggio e astuzia e ottenendo infine un premio meraviglioso. Lo scenario del racconto è una delle tante immagini dell’India che Salgari ha delineato con tale precisione da suggerirne una conoscenza diretta, personale. Sappiamo che non è così, ma poco importa: nelle sue pagine, ritroviamo quel senso di mistero e di meraviglia che il nostro mondo globalizzato ha smarrito da tempo.

 
TESTO

Le antiche leggende indiane narravano che nelle profonde caverne del tempio di Ellora1 doveva trovarsi un tesoro favoloso consistente in una statua d’oro purissimo che rappresentava la quarta incarnazione del dio Visnù, quando quella possente divinità per volere di Brama2 fu tramutata in un essere mezzo uomo e mezzo leone affinché distruggesse il gigante Erineano che tiranneggiava i popoli dell’India.
In varie epoche, alcuni coraggiosi si erano provati a entrare nelle misteriose caverne che si dicevano meravigliose, ma nessuno ne aveva mai fatto ritorno per raccontare se il tesoro realmente esistesse o se le leggende narrassero il falso.
Il principe di Sholapur specialmente, che era un fervente seguace di Visnù, aveva mandato non pochi dei suoi più famosi guerrieri a cercarlo, poiché aveva fatto voto di regalarlo alla più grande pagoda3 del suo regno; ma quelli al pari degli altri non si erano più fatti vivi. Si smarrivano nella profondità delle caverne, senza essere più capaci di trovare l’apertura, oppure venivano divorati da qualche ferocissima belva che aveva il suo covo4 in quegli immensi e misteriosi antri?
Il principe già cominciava a disperare di poter mantenere la promessa fatta ai sacerdoti della grande pagoda, non trovando più ardimentosi5 che volessero tentare la sorte, quando un giorno si presentò alla sua reggia un giovane e bellissimo indiano, di forme eleganti e insieme vigorose, che sul turbante portava il distintivo dei Ragiaputi, ossia di guerrieri che si pretendono discendenti dai re indiani distinti6 col nome di «Figli del sole e della luna». «Conducetemi dal principe», disse il giovane. «Giacché nel suo Stato non vi è più alcun prode7 che tenti di andare alla ricerca della statua d’oro di Visnù, mi offro io». I ciambellani8 e i favoriti del principe, vedendolo così giovane, poiché non pareva che avesse ancora vent’anni, gli risero in faccia.
«Come vuoi tu», gli disse il gran ciambellano, «riuscire là dove non sono stati capaci i più poderosi guerrieri del regno? Fanciullo, va’ a pescar pesci».
Insistendo però il giovane, finirono per ammetterlo al cospetto del principe, il quale fu subito conquistato dallo sguardo fiero e risoluto9 di quello sconosciuto.
«Se vuoi andare a morire nei sotterranei di Ellora», gli disse il principe, «io non te lo impedirò. Ti avverto però che non tornerai nemmeno tu».
«E se tornassi con la statua d’oro del dio?» chiese il giovane senza sgomento10.
«Ti concederei tutto quello che tu volessi». «Come vedi, principe», disse allora il giovane, «io appartengo alla più alta casta11 dei guerrieri e mi vanto, come tale, discendente dagli antichi re delle Indie; quindi posso aspirare ai supremi onori se fossi capace di guadagnarmelo col mio valore. Un giorno io ho veduto bagnarsi nelle acque del fiume Rann una bellissima fanciulla che m’impressionò così profondamente da togliermi il sonno e la tranquillità: dammi per sposa quella fanciulla, e io ti prometto di portarti il tesoro celato nelle caverne di Ellora».
«Chiunque ella sia, tu l’avrai, perché nessuno può disobbedire ai miei ordini», rispose il principe.
«Allora sappi che quella fanciulla è tua figlia. Tu me l’hai promessa e io saprò conquistarmela».
Il principe, udendo quelle parole, fece una smorfia: non si aspettava una simile rivelazione. Il giovane era bello, apparteneva a una casta guerresca da tutti rispettata, ma trovava troppo alta l’ambizione sua.
Pensando però che al pari degli altri non sarebbe più tornato, e avendo d’altronde data ormai la parola, credette opportuno non ritirare la promessa.
«Sia pure», gli disse. «Tu avrai la mano di mia figlia se riuscirai a portarmi la statua del dio».
«Grazie, principe», rispose il giovane. «Domani all’alba partirò per le caverne».
«Chi ti condurrà?» «Un vecchio servo, che al pari di me non ha paura: conosce quei luoghi per essere nato nei dintorni delle caverne».
Quando il giovane uscì dalla reggia, più nessuno gli rise sul viso. La sua calma, la sua fermezza e la sua audacia si erano imposte a tutti i cortigiani del principe, i quali cominciavano a credere che egli sarebbe riuscito.
L’indomani Konhor – così si chiamava quel giovane – dopo aver fatto mandare un mazzo di peonie fiammanti12 alla figlia del principe, che segretamente non era rimasta insensibile alla passione di quel bel guerriero, partiva per le misteriose caverne di Ellora, deciso a riuscire o a lasciar la vita nell’impresa. Si era armato fino ai denti e lo accompagnava il vecchio indiano che lo aveva veduto nascere e lo amava come fosse stato suo figlio.
Non fu che verso il tramonto che giunse nei dintorni delle caverne, le quali costituiscono anche oggi una delle meraviglie della grande penisola indostana13.
Più che caverne, sono antichi templi sotterranei, ornati di bassorilievi meravigliosi e sorretti da colonne scavate a forza di scalpello nella viva roccia, con stanze e sale che indicano anni e anni di lavoro continuo, ordinato, si crede, dai possenti monarchi mongoli di vari secoli prima di Cristo.

Alte e massicce mura, che formano ordinariamente più recinti quadrati, s’innalzano attorno alle caverne, con porte sormontate da torri piramidali, dette cobrows, coronate da una rotonda massa di prodigiosa grossezza, tutte ornate di figure rappresentanti le vittorie o le disgrazie degli dèi.
Quelle caverne si allontanano assai nel seno14 di una catena di montagne, formando una serie infinita di cappelle dedicate per lo più a Darmadeve, dio della virtù, rappresentato sotto la figura di un bue, e che ricevono luce solo da una bassissima porta, sicché sono tutte assai oscure.
Konhor e il suo vecchio servo, sapendo che potevano correre dei gravi pericoli, decisero di attendere l’alba prima di addentrarsi in quelle misteriose caverne che parevano abitate da Darmaraja, il dio della morte e del fuoco.
Avendo portato con loro una piccola tenda e delle provviste, si accamparono di fronte all’ingresso principale dei templi sotterranei col proposito di vegliare assiduamente, a turno, temendo che sotto le volte tenebrose si nascondessero delle belve feroci. Accesi quattro fuochi, in modo da circondare il piccolo accampamento, e cenato alla lesta15, armarono le due carabine e le pistole e attesero pazientemente che il sole diradasse le tenebre.
Konhor, che doveva vegliare dopo la mezzanotte, si era appena addormentato presso uno dei quattro falò, quando improvvisamente fu destato da un grido terribile, straziante, che era echeggiato a breve distanza.
Alzatosi di scatto, con terrore aveva constatato la scomparsa del vecchio servo che poco prima vegliava a pochi passi dalla tenda.
Lo chiamò ripetutamente senza ottenere risposta. Solo gli pareva di udire, verso l’apertura delle caverne, un sordo mugolio accompagnato da uno strano rumore che pareva prodotto dal frangersi16 di ossa sotto una stretta formidabile.
«Che qualche tigre abiti la caverna e lo abbia azzannato?», si chiese. Konhor era giovane, ma aveva sangue guerriero nelle vene; perciò decise di andare tosto17 in cerca del vecchio servo e di vendicarlo nel caso che qualche belva lo avesse portato via per divorarlo.
Presa una decisione, non era uomo da riflettere, qualunque fosse il pericolo. Aveva portato con sé delle torce, ne accese una, impugnò il suo iatagan18 dalla lama larga e pesante e dal filo acutissimo, e si diresse coraggiosamente là dove aveva udito quel rumore, ossia verso l’entrata delle misteriose caverne.
Temendo di venire da un momento all’altro assalito da qualche tigre, belve che abbondano nelle giungle indiane e nei luoghi poco frequentati, procedeva con precauzione, stringendo con mano sicura lo iatagan.

Era giunto quasi dinanzi ai colonnati dell’entrata, quando dietro a un cespuglio vide improvvisamente alzarsi una enorme tigre reale che aveva il muso insanguinato. Abbagliata dall’improvviso sprazzo di luce della torcia che Konhor teneva in mano, spalancò le mascelle mandando un lungo ruggito che echeggiò spaventosamente nella notte, poi con un balzo immenso fuggì verso l’entrata delle caverne, scomparendo fra le tenebre. La mossa era stata così rapida, che il giovane indiano non aveva avuto nemmeno il tempo d’alzare lo iatagan e di vibrarle un colpo.
Era appena scomparsa, quando i suoi occhi caddero su un corpo umano che giaceva disteso dietro il cespuglio.
Era il cadavere del vecchio e fedele servo. La tigre doveva essergli piombata addosso a tradimento mentre vegliava presso i fuochi, o, più verosimilmente, mentre si era allontanato per fare un giro intorno alla tenda, ed era stato portato via. I denti acutissimi della belva gli avevano stritolato la cassa cranica e la morte doveva essere stata istantanea.
Konhor, addoloratissimo, trascinò il corpo fino all’accampamento per impedire alla tigre di divorarlo. Pianse tutta la notte poiché amava molto il vecchio servitore. Quando l’alba sorse, Konhor, che aveva giurato di vendicarlo, preparò le sue armi e si diresse audacemente verso l’entrata della caverna.
Ormai aveva capito chi era l’essere misterioso che uccideva tutti i cercatori del tesoro sotterraneo.
Si trattava di una di quelle terribili tigri solitarie che gli Indiani, con una frase efficacissima, chiamano «mangiatrici d’uomini». Sono per lo più tigri vecchie e perciò pericolose quanto astute, sebbene meno leste e meno pronte delle altre, e cercano solitamente un rifugio nelle pagode diroccate19 o nei templi sotterranei. È là che attendono il passaggio dell’uomo, e non si nutrono che di carne umana. Così diventano le più temute, perché per procurarsi quella carne osano inoltrarsi perfino nei villaggi.
Konhor, quantunque giovane, aveva cacciato più volte le tigri insieme con suo padre e qualcuna ne aveva anche uccisa; quindi non provava più quel senso di timore che coglie il cacciatore novellino20 quando si trova dinanzi a quelle belve sanguinarie. Accese una torcia, armò il suo lungo moschetto ed entrò risolutamente nel sotterraneo, scrutando con lo sguardo tutti gli angoli tenebrosi.
Percorsi una cinquantina di passi, si trovò dinanzi a una porta che metteva in un’ampia sala, tutta adorna di sculture rappresentanti per lo più giganti indiani ed elefanti. L’aveva appena varcata quando vide brillare fra le tenebre due punti luminosi che lo fissavano con terribile e spaventosa intensità.
La «mangiatrice d’uomini» era là, in agguato, pronta a scagliarsi sull’audace giovane che osava andare a scovarla nel suo asilo21.
Konhor per un momento fu colto da un brivido di terrore; poi, pensando alla bellissima figlia del principe, si fece animo, e piantata la torcia in una fessura del suolo impugnò il moschetto prendendo freddamente di mira l’animale che brontolava sordamente22, senza decidersi ancora ad assalire.
Una assordante detonazione rintronò, propagandosi cupamente di caverna in caverna, seguita da quell’urlo spaventoso che è proprio delle tigri.

Konhor, non essendo ben certo d’aver colpito la fiera, aveva fatto un salto indietro lasciando cadere il moschetto ed estraendo lo iatagan. Quando il fumo si fu dissipato, non vide più dinanzi a sé la belva. Doveva esservi qualche porta all’estremità della sala e la tigre, contro le sue abitudini, doveva essere fuggita. Il valoroso giovane attese qualche minuto; poi, non vedendola ricomparire, ricaricò il moschetto, riprese la torcia e avanzò cautamente ben deciso a finirla con la pericolosa avversaria. Si trovò ben presto tra un ammasso di ossa, mescolate a lembi di stoffa scoloriti e ad armi d’ogni specie, arrugginite dall’umidità. Dovevano essere i resti degli sfortunati che in varie epoche avevano cercato d’introdursi nelle tenebrose caverne per cercarvi la famosa statua del dio. Quantunque il giovane fosse rimasto non poco impressionato da quella scoperta, continuò a procedere varcando una seconda porta, sulla cui soglia scorse delle macchie di sangue. La tigre era stata indubbiamente colpita. Certo ormai di vincerla facilmente, affrettò il passo attraversando parecchie sale meravigliosamente scolpite, finché giunse in una molto più vasta delle altre, in mezzo alla quale, con sua immensa gioia, vide ergersi una statua scintillante che raffigurava un essere mezzo uomo e mezzo leone. Le antiche leggende non avevano mentito. La statua d’oro del dio gli stava dinanzi! Stava per precipitarsi, quando gli piombò addosso una massa pelosa che lo atterrò di colpo, mentre un urlo orribile rintronava nella caverna. La «mangiatrice d’uomini» lo aveva assalito a tradimento piantandogli le unghie nelle spalle. Konhor per un momento si credette finito; poi con uno sforzo supremo riuscì a sfuggire alla stretta della belva e introdurle fra le mascelle l’estremità della canna del moschetto. Un lampo. La testa della belva fu sfracellata di colpo dalla scarica. Le ferite riportate dal giovane erano però tali da richiedere dei pronti23 soccorsi onde24 evitare una mortale perdita di sangue. D’altronde la statua era ormai stata trovata e la terribile tigre morta. Radunate le proprie forze, uscì dalle caverne e corse, finché ebbe fiato, a un villaggio vicino, dove venne subito curato. Un messo25 fu tosto26 spedito al principe per avvertirlo del felice esito dell’impresa. Tre giorni dopo, un folto manipolo27 di guerrieri portava la statua del dio a Sholapur insieme col valoroso giovane adagiato nella lettiga del principe. Tre mesi più tardi la popolazione entusiasta acclamava il matrimonio dell’uccisore della «mangiatrice d’uomini» con la bellissima figlia del rajah28.

(E. Salgari, Avventure di terra, di giungla e di mare, Einaudi, Torino 2001)

  1. tempio di Ellora: un complesso di edifici religiosi, situato nell’India centro-occidentale. Esso comprende anche 34 grotte adibite al culto.
  2. Visnù … Brama: nell’induismo, il primo simboleggia il potere della creazione, mentre il secondo è considerato una manifestazione dell’assoluto.

  3. pagoda: monumento sacro a forma di torre, divisa in vari piani.

  4. covo: tana.

  5. ardimentosi: uomini audaci.

  6. distinti: conosciuti.

  7. prode: valoroso.

  8. ciambellani: ufficiali di corte.

  9. risoluto: timore, spavento.

  10. sgomento: timore, spavento.

  11. casta: gruppo sociale rigidamente separato dagli altri in base a leggi religiose o civili.

  12. peonie fiammanti: vistosi fiori color rosso acceso di queste piante cespugliose.

  13. indostana: indiana (la regione a est dell’Indo e a ovest del Gange).

  14. nel seno: nella profondità.

  15. alla lesta: rapidamente.

  16. frangersi: spezzarsi.

  17. tosto: subito.

  18. iatagan: sciabola corta a lama larga e ricurva, portata dai malesi e dagli indiani.

  19. diroccate: irrimediabilmente crollate in più punti, cadute in rovina.

  20. novellino: privo di esperienza.

  21. asilo: rifugio.

  22. brontolava sordamente: emetteva un ringhio basso e cupo.

  23. pronti: immediati.

  24. onde: per.

  25. messo: messaggero.

  26. tosto: subito.

  27. manipolo: gruppo.

  28. rajah: titolo di principi e di alti dignitari indiani.

ANALISI DEL TESTO

Gli spazi dell’avventura

I luoghi in cui si colloca la vicenda sono descritti in modo dettagliato, con la consueta precisione di Salgari: lo scrittore, infatti, amava informarsi accuratamente sulla geografia, la cultura e i modi di vivere dei luoghi che fanno da sfondo alle storie narrate, talora essi stessi dei veri e propri «personaggi». In tal modo, s’intensifica l’impressione di realismo e si accentua la tensione drammatica: le caverne, per esempio, costituiscono il tipico spazio dell’avventura, perché incutono timore e un senso di oscuro pericolo. Spazi esotici, antagonisti spietati e un’ambita ricompensa scatenano la fantasia del lettore e lo spingono a uscire dalla noiosa routine quotidiana.

Un «eroe» senza magia

Konhor, il protagonista, a differenza degli eroi delle fiabe, non dispone di uno strabiliante mezzo magico. Il suo aiutante è un uomo anziano, forse debole, che viene ucciso e dunque “abbandona” quasi subito il suo giovane padrone. Konhor, però, oltre al moschetto e allo iatagan, dispone di altre armi per uccidere il suo avversario, l’enorme tigre reale: le qualità del coraggio e della determinazione. Egli prova tuttavia un brivido di terrore alla vista della belva in agguato, simbolo di quella natura selvaggia con la quale l’uomo deve misurarsi, facendo appello soprattutto alla propria forza interiore.

BIOGRAFIA DELL'AUTORE

Emilio Salgari nasce a Verona nel 1862. Poco più che adolescente si imbarca come ufficiale e per diversi anni viaggia sui mercantili in servizio nel Mediterraneo. Amante del mare e dei luoghi inesplorati, sembra che alcuni ricordi di viaggio abbiano contribuito a far crescere in lui il desiderio di diventare uno scrittore. Esordisce nel 1883 con il racconto I selvaggi della Papuasia e da questo momento inizia un’intensa carriera letteraria, oggi così rivalutata e apprezzata da farlo annoverare tra i più significativi narratori del periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Tra le sue opere ricordiamo: I misteri della giungla nera (1895), I pirati della Malesia (1896), Il corsaro Nero (1899), Le tigri di Mompracem (1901), I predoni del Sahara (1903), La città del re lebbroso (1904), Jolanda, la figlia del Corsaro Nero (1905), Capitan Tempesta (1905), Le selve ardenti (1910). Ha composto anche varie raccolte di racconti, tra le quali Il vascello maledetto (1909) e Avventure di terra, di giungla e di mare (antologia di testi di varie epoche, pubblicata a più riprese). Dopo aver vissuto a Sampierdarena, vicino a Genova, nel 1900 si stabilisce a Torino. Oppresso dai debiti e preoccupato per le condizioni di salute della moglie, si toglie la vita il 25 aprile 1911.

 
 
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